Suite-Hope Chiara Frigo si interroga sul concetto di speranza alla luce della realtà contemporanea. Si propone quindi di sfoltire il campo da ogni concezione illusoria di questa parola e di riposizionare nell’oggi la domanda su cosa vuol dire sperare. L’obiettivo è cercare di trovare una nuova dimensione al concetto di speranza usurato e a volte abusato. Il tempo, l’altro e la scena: le tre dimensioni principali del discorso che prende forma attorno al tema della speranza. Il tempo dato a ogni uomo che ha intorno a sé altri uomini e la terra come una scena sotto i piedi. Uno sforzo continuo per vedere il mondo in movimento, in evoluzione, in cui ognuno crea se stesso, a volte migliorandosi a volte fallendo. |
Chiara Frigo Chiara Frigo, coreografa e perfomer si forma e lavora in Italia e all'estero. Laureata in biologia molecolare, esordisce come coreografa nel 2006 con il solo Corpo in DoppiaElica, con cui vince il terzo premio al 10° Festival Choreographers Miniatures di Belgrado. |
Barricate Punto di partenza: "Odio gli indifferenti" diceva Antonio Gramsci. Chi resta indifferente si appiattisce al muro e lascia fare agli altri. Non prende parte, non va in nessuna direzione, non è mai per primo, mai per secondo. Non è mai. A volte non guarda neanche. A malapena respira. Sopravvive. L'uomo indifferente non si ribella, non si appassiona, non crea, non sogna, non inventa, non urla, non cucina, non indica, non sorride. Ha il corpo molle e non fa scintille. Per questo io non voglio restare indifferente. Vorrei, a mio modo, con i pochi strumenti che ho, farmi coraggio e scegliere una strada. Un percorso, una direzione. Per farlo devo allenarmi ogni giorni e ho sempre paura che il tempo non basti mai. Per farlo nel migliore dei modi ho bisogno di maestri, di scambi, di esempi, di spunti, di armi. Mi guardo intorno, avanti, indietro, prendo appunti, faccio domande. Cerco dei complici. Risvegliare l'aspirazione al gesto epico che dorme abbandonata nella camera dei giochi. Cercare dei complici, inventare linguaggi segreti per comunicare oltre al consueto concesso. Alzare barricate per difendere tutto ciò a cui tengo veramente. A cosa tengo veramente? A cosa tengono i miei complici? A cosa ci teniamo noi tutti assieme? Chi minaccia ciò a cui teniamo? Come è fatto il nemico? Quanto è cattivo? Quanta paura fa? Quale è il modo migliore per affrontarlo? Di cosa è fatta la nostra barricata? Reggerà? Resisterà? Resisteremo? Certo che resisteremo. E se qualcuno muore? Non devono esserci morti. Ecco una cosa a cui tengo veramente. E se ci sono stati, ed ecco un'altra cosa a cui tengo veramente, che abbiano almeno una sepoltura degna tra le pagine della Storia e non sotto le notizie. Giulio Molnàr nasce nel 1950 a Budapest, è attore, autore, regista di origine ungherese, vive in Italia, lavora e collabora in giro per l'Europa. Docente alla Scuola d'Arte Drammatica "Ernst Busch" di Berlino presso la facoltà di Teatro di Figura. Da anni conduce laboratori di ricerca su una particolare scrittura scenica che si avvale come fonte di ispirazione dell'improvvisazione creativa tra attore e oggetto. IL PIP Per il 2011 la direzione artistica del Festival, con la collaborazione di Trude Kranzl, ha invitato Giulio Molnàr, maestro del Teatro d'Oggetti, a dirigere la quarta edizione del progetto. Le artiste inizialmente selezionate sono state Beatrice Baruffini, Daniela Crucci, Marta Cuscunà e Irene Vecchia, quattro personalità e professionalità diverse che hanno contribuito attivamente alla messa in scena. Il gruppo ha lavorato dalla fine di Agosto ad Ottobre 2011 tra Grugliasco e Torino per poi presentare lo spettacolo il 12 Ottobre alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino e il 16 Ottobre presso la Cavallerizza Reale all'interno di Prospettiva 150, Festival d'autunno del Teatro Stabile di Torino. |
Eroi Cosa rimane oggi dell’Iliade? È possibile raccontarla ancora? Eppure basta poco: basta trovare un episodio che risuoni della tua esperienza personale e lo puoi usare come grimaldello per entrare una questa fortezza piena di tesori appena velati dal tempo, intimorito e umile di fronte alla bellezza. E’ stato scelto il racconto, più vicino possibile a quello originario del primo grande narratore della storia, per permettere a ognuno degli spettatori di “vedere” nella propria mente, di riempire le parole del narrato con le immagini della propria esperienza e della fantasia aiutati dalle musiche composte ad hoc da Giorgio Gobbo e Sergio Marchesini. Il narratore utilizza i ricordi di scuola, il padre che gli regala una copia dell'Iliade, e da qui parte per una affabulazione dove si incontrano Bush e Agamennone, Omero e Kill Bill, San Siro (nel senso dello stadio) e l'Iraq, maestri di judo ed eroi della mitologia. Incorniciato da due spade chiamate a simboleggiare le armate dei troiani e degli achei, il racconto fa della città di Troia uno «Stato canaglia» e della bella Elena il primo caso di «disinformazione bellica» della storia, regala infiniti spunti di riflessione sulla violenza e sulle economie della guerra e sulla vera natura dell’eroismo. Questo non è un tentativo di raccontare tutta l’Iliade ma un episodio solo, che vale per tutti: la storia di Ettore e dei fatti che lo portarono davanti ad Achille, inclusa la storia di Patroclo e della lite che causò la famosa ira funesta, con un prologo, un epilogo e un intermezzo erotico-sentimentale. In quattro giorni. "Gli uomini sono come le foglie, il vento li porta via d'inverno e altri spuntano a primavera". "Mio padre è tornato senza racconti dalla sua guerra, quella che doveva essere l'ultima, mondiale come quella di Troia. Diceva che non aveva niente di epico la sua storia, solo brandelli, ricordi di fame, paura, il campo di concentramento. È per questo che mi ha regalato l'Iliade: per calmare la mia fame di storie, ed è per questo che ciclicamente torno all'Iliade". |