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Venerdì, 06 Maggio 2016
Pubblicato in Interviste

Santa Estasi è al tempo stesso un titolo, ma è anche una condizione da raggiungere, da conquistare.
Santa Estasi è il viaggio che Antonio Latella ha compiuto con gli attori della scuola di alta formazione di Fondazione Emilia Romagna Teatro: Alessandro Bay Rossi, Barbara Chichiarelli, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Mariasilvia Greco, Christian La Rosa,  Leonardo Lidi, Alexis Aliosha Massine, Barbara Mattavelli, Gianpaolo Pasqualino, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino, Emanuele Turetta, Isacco Venturini, Ilaria Matilde Vigna, Giuliana Vigogna e con sette giovani drammaturghi: Riccardo Baudinio, Marina Folena, Matteo Luoni, Camilla Mattiuzzo, Francesca Merli, Silvia Rigon e Pablo Solari.
Santa Estasi raggruppa otto spettacoli, otto azioni teatrali legate alla stirpe degli Atridi, otto episodi di un'unica storia di eroi, un itinerario intenso nella tragedia greca e alle origini del teatro.
«L'estasi è la condizione ideale del teatro, dello stare in scena – spiega Antonio Latella -, l'estasi è l'essere in scena, è uno stato di grazia, è l'aprirsi all'impossibile, è la situazione che dovettero condividere i greci nelle grandi feste drammatiche, in quel tempo sospeso che era ed è il tempo del teatro».

Questa situazione è andato cercando con i suoi attori e drammaturghi?
«E' questa pregnanza dello stare in scena che mi interessa e su cui abbiamo lavorato in un'esperienza per certi versi unica».

Non capita spesso di poter e dover allestire otto spettacoli, otto 'ritratti di famiglia' affrontando un corpus testuale importante come la saga degli Atridi...
«Soprattutto non capita spesso di poter lavorare ad un unico progetto per sedici settimane, di poter selezionare sedici attori dai 22 ai 30 anni avendo a disposizione 520 possibili candidature, di poter chiedere a sette giovani drammaturghi di lavorare sui testi di Euripide, Seneca, Eschilo, entrando a piene mani nell'Ifigenia in Aulide di Euripide, nel Tieste di Seneca, ne Le Troiane, in Elena, Elettra, Oreste e Ifigenia in Taulide sempre di Euripide, nell'Agamennone e nelle Eumenidi di Eschilo. Chiude il nostro viaggio all'interno della stirpe degli Atridi Crisotemi di Linda Dalisi che insieme a Federico Bellini ha lavorato all'intero progetto di Santa Estasi. Già il materiale drammaturgico che abbiamo voluto affrontare era di per sé scottante, a questo si aggiunge la volontà di chiedere ai drammaturghi di lavorare sui testi e sulle parole dei tragici e agli attori di farle proprie, di attraversarle. Proprio mediante questo attraversamento abbiamo cercato di raggiungere la verità della parola, quella parola segreta e polisemica che è la parola del mito e della tragedia».

Insomma per la formazione di giovani attori e drammaturghi la partenza non poteva essere che dalla tragedia...
«Ci siamo chiesti che cosa fosse la tragedia? Ci siamo interrogati non sui canoni di un genere, ma sul significato profondo di questa parola che sta in cima a ogni titolo delle opere che si è scelto di indagare. Come essere tragedia attraverso l'uso della parola? E chi è l'eroe? Che spazio abita e che tempo? L'attore-eroe si fa attraversare dalla tragedia, con pura essenza e con puro stare. L'esplorazione del limite, quel 'passo sospeso della cicogna' che una volta fatto conduce l'eroe in un 'altrove' o alla morte, racchiude il senso tragico dell'andare incontro al proprio destino. Da un lato abbiamo indagato il significato della figura dell'eroe, che è colui che erra, nel senso che sbaglia e attraverso i suoi errori conosce, fino all'estremo sacrificio».

E tutto ciò in un contesto familiare, di consanguinei?
«L'altro grande tema è il tema della famiglia, della stirpe degli Atridi, delle colpe che dai padri ricadono sui figli. Ciò che mette in scena la serie di 'otto ritratti di famiglia' è la ricostruzione di una concatenazione di eventi che hanno origine nell'antico peccato di hybris di Tantalo, e si tramandano di padre in figlio, spingendo nel tempo una maledizione che slabbra via via la pelle e contamina il sangue generazione dopo generazione, porterà all'elaborazione di un unico grande testo».

Santa Estasi si presenta dunque come un corpus unico, ma anche come un atto di riflessione sul teatro e sulla sua semantica...
«Ho voluto dedicare questo lavoro alla memoria di Massimo Castri e alla sua capacità di leggere e interpretare i testi, ma anche alla sua capacità di maestro, pedagogo del teatro».

In tutto ciò c'è anche un legame con la tradizione del teatro registico...
«Un legame personale. Io ero Pilade nella sua Ifigenia in Aulide con Anna Maria Guarnieri».

Un ritorno alla sua formazione di attore, alle origini della sua vocazione teatrale?
«Forse, ma anche una riflessione sull'impossibilità di un metodo».

Cosa intende dire?
«Massimo Castri, come molti registi della sua generazione, elaborò un suo metodo di lettura dei testi, di messa in scena, di formazione degli attori. Poi, soprattutto nell'ultimo periodo, mi diede l'impressione di non riuscire più a liberarsi da quel metodo. Quello che doveva essere uno strumento per ricercare sembrava diventato diventare una maglia, una struttura rassicurante all'interno della quale leggere ogni cosa. La questione del metodo è una questione che appartiene non solo a Massimo Castri ma per certi versi a tutta l'elaborazione teatrale del '900».

Detta così suona come proclamazione di una nuova estetica del teatro?
«Diciamo che ho lavorato in direzione opposta rispetto a quella di offrire ai miei attori in formazione un metodo rassicurante, una strada già tracciata. Non ho voluto e non so in realtà insegnare un metodo ai miei attori, ma il mio obiettivo è scardinare prima le mie certezze, i miei punti di riferimento. Lavorando con gli attori della scuola, ma in generale lavorando con i miei attori voglio pormi nella condizione adatta per ricercare e creare insieme. Ho fatto ciò sia nel lavoro con gli attori che con i drammaturghi. Non ho voluto imporre il mio punto di vista, abbiamo lavorato insieme, ho chiesto loro di lasciarsi andare, di farsi attraversare dai dubbi, di abbandonare quelle piccole certezze che uno si porta dietro, magari dopo aver finito l'accademia, certezze che derivano dalla presunzione di aver concluso un percorso, di aver raggiunto la meta. La cosa che più mi spaventa è la paura di questi ragazzi di andare oltre le certezze e conoscenze che hanno acquisito. Le piccole certezze servono per andare in cerca di grandi insicurezze. Ho chiesto a loro di fidarsi, di non aver paura di andare, di errare, non aver paura di farsi male».

Insomma viene da pensare all'attore come all'eroe, ovvero colui che erra, fa esperienza, non teme di incorrere nell'errore e forse dall'errore trae nuova energia per proseguire il suo cammino.
«Nelle settimane di lavoro ho cercato di instillare dubbi più che certezze. Ho lascito lavorare in libertà i drammaturghi, ne ho accettato le parole, anche quelle che non condividevo. Mi sono messo in ascolto con loro e insieme a loro, senza offrire un mio metodo, ma costruendo con loro il percorso all'interno della storia degli Atridi, all'interno delle parole del tragico che ancora oggi ci dicono di noi, del nostro mondo, della realtà, del desiderio, della paura, della vita e della morte. Credo che la centralità dell'attore, la responsabilità che assumiamo nel vestire la parola siano centrali oggi nell'intendere il teatro, soprattutto quando ti assumi il compito di formare giovani attori».

E in tutto questo per raggiungere quell'estasi di cui si diceva, quella verità dello stare in scena?
«Userei con cautela la parola verità».

Cosa intende dire?
«Non c'è la verità scenica, c'è la menzogna scenica. Io credo alla capacità di saper mentire benissimo e far credere che è vero. Ma non credo alla verità. Devi saper mentire così bene che io penso che è vero quello che dici. Questo tavolo è vero, il bicchiere è vero e questo mi basta. Poi posso prendere questa scatola che è sul tavolo e farla diventare la bara di un bimbo, dipende da come lo dico. So che gli attori vanno tolti dalle loro sicurezze, come ho detto prima e infilati nei dubbi. E stare a guardare cosa succede di fronte al dubbio».

In questo credere vero ciò che accade si compie, o meglio si può verificare quell'estasi che chiama santa, che è la fascinazione del teatro?
«Pubblico e attori vivono una dimensione altra, sentono e vivono una storia, la storia degli Atridi nel nostro caso. Anche per questo abbiamo immaginato una sorta di maratona in due tappe in cui offriamo gli otto lavori in due tranche, un modo per immergerci nella storia del mito, un modo per condividere insieme: attori e spettatori quello stordimento, a tratti faticoso, che può offrire il teatro quando sa farsi esperienza totalizzante, un'occasione per annullare tempo e spazio e vivere nel qui ed ora di quella finzione scenica che proprio perché condivisa ha la forza di farsi credere vera e di trasformare non solo chi la agisce ma anche chi la partecipa, chi via assiste».

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