Al debutto il pubblico di abbonati del Goldoni ha lasciato la sala e ciò è bastato per fare de Il servitore dei due padroni da Carlo Goldoni per la regia di Antonio Latella un caso. Direttori dei teatri allarmati, preoccupati per la reazione del loro pubblico e uno spettacolo difficile, ma coraggioso stanno caratterizzando questa stagione teatrale. Certo Antonio Latella nel momento in cui ha deciso di affrontare il testo di Goldoni consacrato dall'allestimento di Giorgio Strehler sapeva che avrebbe giocato col fuoco e forse per questo lo ha fatto, per giocare col fuoco, accendere l'incendio, aprire la strada alla possibilità di fare del teatro contemporaneo non un vezzo, non un lusso, ma una costante. Non a caso la drammaturgia dello spettacolo è firmata da Ken Ponzio, come dire: l'avviso ai naviganti è che ci si trova al cospetto de Servitore di due padroni di Latella e Ponzio, liberamente tratto da Goldoni. «Le parole sono importanti, hanno un peso», ripetono più volte gli attori in scena. Peccato che forse a causa delle polemiche che stanno accompagnando il Servitore – spettacolo fra l'altro cresciuto, che sta maturando viepiù grazie a un gruppo di attori che lo sta facendo proprio con rara passione e prezioso senso di responsabilità etico ed estetico – con ogni probabilità lo spettacolo – prodotto fra l'altro da Ert e sostenuto con intelligenza e sensibilità dal suo direttore Pietro Valenti – non verrà ripreso la prossima stagione. Nella speranza si possa ovviare a ciò nel nome del teatro d'arte e di un allestimento che sa essere un atto di grande amore per il teatro, non si può che consigliare di non perdersi Il servitore di due padroni. Di fronte ad un pubblico disorientato – spesso –, a un rifiuto aprioristico – meno spesso – e ad una coerenza di ricerca che Latella dimostra di possedere, più che dire dello spettacolo in sé vale la pena – ad uso e consumo di chi Il servitore di due padroni l'ha visto o lo vedrà – chiedere al regista, attualmente impegnato in Siberia nella messinscena di Peer Gynt di Ibsen il perché abbia sentito l'esigenza di farsi riscrivere il testo goldoniano...
«Riscrivere per dare un segno autoriale è stata sempre una mia esigenza, in tutti i lavori che ho fatto, è una necessità che spesso viene dalla voglia di confrontarmi con l'autore scelto. La riscrittura del Servitore è nata per cercare attraverso gesti e linguaggi contemporanei, di innescare quel meccanismo di incontro-scontro che avveniva nella commedia dell'arte, prima che Goldoni ne facesse scrittura scenica; anche quella a suo tempo era una riscrittura, potente ed innovativa. Ovviamente se riscrivi ti esponi a grandi rischi, ma credo che esporsi e prendere posizione su un testo e un autore sia un dovere».
Cosa l'ha convinta della drammaturgia di Ken Porzio?
«La sua essenza, è come se avesse riportato la parola all'osso, togliendo tutti i ghirigori, gli orpelli che abbelliscono e nascondono il detto e il non detto. Quello che alcuni possono scambiare come superficiale io trovo che sia profondissimo, quasi una critica spietata alla nostra società e perché no anche al nostro teatro. Ken Ponzio non ha paura, non si nasconde, ha preso dei rischi perché se provi a rimettere in scena un testo così lontano da noi, a mio avviso lo devi fare fino in fondo. Ho letto ultimamente che la potenza dei registi sta nel riuscire a mettere i testi in scena senza riscriverli, nel trovare una tensione che unisca tradizione e contemporaneità. Credo che questo valga soprattutto per i testi del '900, ovviamente nelle scelte che ho fatto con autori del novecento ho sempre preferito testi che scardinavano già la scrittura borghese di un certo teatro; credo che Ken Ponzio si rifaccia a questi autori che hanno totalmente rivisto la scrittura per il teatro nella seconda metà del secolo scorso».
Cosa l'ha spinta ad affrontare Il servitore di due padroni che è in un certo qual modo il simbolo del teatro italiano?
«La menzogna di quel testo, la menzogna del non detto, la menzogna della verità dietro le maschere, la menzogna della cartapesta che crea finte stanze che non saranno mai, la menzogna di un Arlecchino che nell'originale si chiama Truffaldino, la menzogna del dolore camuffato in risata, la menzogna dell'amore come mercificazione dei sentimenti e la menzogna di quello che all'estero vogliono continuare a vedere di noi cioè pizza, Arlecchino, Pulcinella e mandolino».
Non appena ha annunciato questa sua nuova produzione l'impressione è stata quella di una sfida aperta all'Arlecchino strehleriano.
«Questa è stata la più grande sciocchezza che alcuni operatori hanno voluto leggere. La trilogia della villeggiatura l'ho fatta all'estero proprio perché anche quella avrebbe causato confronti con maestri del Novecento, ma noi non siamo Novecento, siamo il ponte tra i due secoli e abbiamo il dovere di prendere la tradizione per rilanciarci e cercare nuove possibilità, anche nell'errore che è necessario se si vuole veramente cercare e non affermare il proprio bisogno di fare regia. Questa è la lezione di un maestro come Strehler: continuare a studiare la regia, non fare regia e basta».
Come si spiega le reazioni alle prime repliche al suo Arlecchino contemporaneo?
«Condivisibili, giuste. Il pubblico va ascoltato nel bene e nel male. Se il pubblico sente che viene preso in giro è giusto che protesti ma alcune volte il pubblico dorme e alla fine applaude; cos'è meglio? Io preferisco la protesta, anche questo è un dovere, ricreare una discussione è necessario. Sinceramente credo che il pubblico vada accompagnato a leggere nuovi linguaggi, purtroppo molti operatori preferiscono che la ricerca venga fatta solo nell'off o nei festival, questo causerà la morte di coloro che ancora sentono questa spinta, questa voglia di andare oltre il già detto; ovviamente questa non è la regola».
Chi è Arlecchino per Antonio Latella?
«Arlecchino sono tutti coloro che si mettono al servizio di un solo padrone: il teatro, per fare questo devono saper servire sia il padre padrone che è la tradizione, sia il nuovo padroncino che è il contemporaneo. Preferirei che non si servisse il figlio del padre padrone che è il moderno. Se ogni tanto alzando la testa in teatro ci ricordassimo che quella striscia di velluto sopra i due grandi lembi si chiama arlecchino, forse impareremo ad essere servi e finalmente a servire, senza toppe 'pippe'».
Oggi che senso ha un testo come quello del Servitore dei due padroni?
«Una delle parole più presenti nel testo di Goldoni è 'morto', da quella ci può essere una resurrezione, o forse una rinascita. Distruggere per ritornare alle parole di Goldoni o forse per arrivare al prossimo spettacolo».
In cosa l'ha ritenuto valido?
«Ogni colore dell'abito di Arlecchino è una storia, è un attore, è un'idea di teatro, è una possibilità, un punto di vista. Il demone ha cucito i colori e ne ha fatto un vestito. Quanto non detto c'è in Goldoni che si potrebbe dire cambiando la prospettiva, senza annacquare i colori, ma tenendoli sempre come primari».
Si ha l'impressione che questo Servitore di due padroni rappresenti una sorta di spettacolo etico, politico sulla semantica del teatro. È una giustificazione che trova chi apprezza il suo lavoro?
«Non lo so, mi piacerebbe che il prossimo regista che metterà in scena Arlecchino, tra altri cinquant'anni, sia finalmente libero di farne quello che vuole. Mi piace pensare che questo mio lavoro sia un ponte, necessario a quelli che verranno. Io non faccio teatro politico, ma faccio politica perché faccio teatro, anche qui il punto di vista cambia e non è un dettaglio».
E' inscindibile la cesura fra la contemporaneità e la tradizione?
«Io Sono la mia tradizione ed è per questo che sono contemporaneo. Io ci sono perché ci sono stati un padre e un nonno, che vanno amati e alcune volte traditi. È come nella tragedia greca: si uccide sapendo chi si sta uccidendo e perché. Non sempre l'uomo contemporaneo ha saputo uccidere i padri, prima di farlo li devi conoscere».
Che consigli darebbe agli spettatori che vengono a vedere il suo Servitore? Quali possono essere un buon motivo per vederlo e un aspetto a cui far attenzione per capire l'operazione?
«Accettare di essere uno dei tanti ospiti di quell'immenso albergo che è il teatro, accettare anche solo schegge di storia e lasciare che questa non storia si costruisca da se, dall'angolatura che si vuole, come guardare da uno spioncino: vedo un dettaglio e da lì parte la mia idea di ciò che ho visto. È più facile di quello che si pensa solo che bisogna lavorare un po', so anche che il teatro per molti resterà intrattenimento e anche questo credo che sia giusto»
Perché ci sia arte, perché ci sia un qualche fare e un contemplare estetico, è indispensabile una precondizione fisiologica: l'ebbrezza. L'ebbrezza deve avere prima di tutto intensificato l'eccitabilità di tutta la macchina: prima di ciò non si giunge a nessuna arte. Tutte le specie di ebbrezza, ancorché tanto diversamente condizionabile, hanno questa forza: prima di tutto l'ebbrezza dell'eccitazione sessuale, la più antica e originaria forma d'ebbrezza. Allo stesso modo l'ebbrezza che si presenta in conseguenza di tutte le grandi brame, di tutti gli affetti forti; l'ebbrezza della festa, della competizione, del pezzo di bravura, della vittoria, di ogni movimento esterno; l'ebbrezza della crudeltà; l'ebbrezza della distruzione; l'ebbrezza sotto certi influssi meteorologici, per esempio l'ebbrezza primaverile; o sotto l'influsso dei narcotici; infine l'ebbrezza della volontà, l'ebbrezza di una volontà sovraccarica e turgida. L'essenziale nell'ebbrezza è il sentimento di incremento di forza e pienezza». Questo incremento di forza e pienezza c'è nell'ebbrezza del teatro di Roberto Latini, si dirà di più c'è in Roberto Latini che è corpo che canta, voce che vibra, anzi è ebbrezza del teatro, è impossibilità di contenere il teatro e la forza del dire nei limiti del corpo, ma al tempo stesso è corpo che in mezzo alla scena riempie lo spazio, è corpo dilatato di parola e musica, di movimento e danza. Per questo la citazione dal Crepuscolo degli idoli di Nietzsche ben rende il teatro sacrale di Roberto Latini, ben rende il suo essere sacerdote di un'arte che non teme di frequentare l'ebbrezza per portarsi sul crinale del limite, che è viaggio continuo, è scarto poetico e linguistico, è fonema che si fa semantica, è parola che si fa musica, è danza che frequenta l'equilibrio instabile di un affacciarsi sull'abisso. E ancora in Roberto Latini «l'attore, il mimo, il danzatore, il musicista, il lirico sono strettamente imparentati quanto ai loro istinti e sono in sé un'unità». E sono ancora parole di Nietzsche che ben si adattano alla natura multiforme, possente e fragile, virile e androgina di Roberto Latini che è musico e mimo, che è attore e danzatore, che è corpo erratico, ebbrezza fisica. Al tempo stesso le parole adattate al corpo e all'attore, sono un binomio tranquillizzante che a Roberto Latini farebbe probabilmente orrore, lui che la parola e il testo li seziona, li ribalta, li indaga fino agli esiti ultimi, fino a estrarre dal verso poetico e dal gesto mimico quell'ebbrezza che viene da lontano, da un apprendistato faticoso e intenso, appassionato e amato, che viene da una consapevolezza che in scena «la sola legge è l'energia poetica che passa dal silenzio soffocato alla concitata rappresentazione di uno spasimo, e dalla parola individuale a mezza voce, all'ampia e greve tempesta di un coro in lento crescendo». In questo senso il teatro di Roberto Latini è teatro dell'ebbrezza, è canto condiviso, è invito a essere presenti, è scambio di vita, è occasione, ovvero chiamata ad agire, bisogno fisico, urgenza dell'anima. In questo contesto non basta citare i suoi lavori e la sua produzione dalla Ballata del vecchio marinaio a Jago, dall'attenzione ai grandi classici, allo sconcertante Caligola, fino al percorso di Noosfera fra Paese dei Balocchi e naufragio dell'Occidente/Titanic: ciò che urge indagare è Roberto Latini come medium, corpo sacrificale, capro che espia nello stare in scena l'inconciliabile ebbrezza della poesia e il cupio dissolvi del quotidiano sospeso nel festivo del teatro.
Quando ha capito che avrebbe voluto fare l'attore?
«Alla fine del secondo anno della scuola di teatro. Andai da Perla Peragallo e le dissi che avrei voluto fare questo. Il 'questo' era un generico 'quello' e non c'era bisogno che dicessi altro. Dissi che volevo fare quello che facevamo lì e che capivo essere potenzialmente tanto altro. Alla fine del secondo anno credo di aver sentito quanto potenziale c'era e l'ho scelto in potenza dentro di me. Lo dissi a Perla e lei non mi rispose nemmeno. Solo uno strano sorriso. Avevo poco più di vent'anni e dovetti aspettare i ventisette per decidere nuovamente e davvero e mettere le mie decisioni a misura della vita che iniziava a reclamare una nuova dimensione».
Come si è formato?
«Ho avuto la fortuna, anche nell'accezione di destino, di iscrivermi alla scuola di Perla Peragallo. Nel triennio 1989-1992 ho frequentato a Roma lo Studio di Recitazione e di Ricerca Teatrale Il Mulino di Fiora. La scuola è stata attiva per dieci anni circa fino al 1997. Io mi sono diplomato nel 1992 con quelli del primo corso. Senza la scuola di Perla, senza Perla fondamentalmente, non avrei fatto nulla. Solo chi l'ha conosciuta può capire cosa voglia dire».
C'è un aspetto particolarmente decisivo di quella esperienza?
«Tra i suoi meriti, Perla aveva ideato non un metodo ma una modalità che negli anni si è rivelata inestimabilmente preziosa: oltre alle normali attività didattiche, oltre alle materie più o meno normali, gli iscritti erano obbligati ogni mese, una sera al mese, a presentare propri materiali di fronte a un pubblico. Ogni mese per tre annualità accanto a scene cosiddette 'di repertorio' preparate con Perla, bisognava presentare le proprie 'scene inventate' che erano libere per struttura, linguaggi e contenuti. Presentarle a un pubblico che era ovviamente quasi sempre composto da amici e parenti ma che svolgeva la sua funzione di pubblico per noi allievi. Di mese in mese, alla fine del triennio ognuno degli iscritti aveva in effetti affinato una propria grammatica e stabilito alcuni propri fondamentali».
E tutto ciò che frutti ha portato?
«Per me è stato semplicemente così. Appena uscito dalla scuola ho fatto degli spettacoli che non erano altro che 'scene inventate' più lunghe e articolate. Anche ora credo di costruire le mie proposte passando attraverso stadi che sono ormai i miei e lo sono in effetti da più di 20 anni. Quanto detto fino a qui non sarebbe esaustivo rispetto a un percorso di formazione che poi in effetti non finisce mai. Dal 1992 in poi, sono sicuro di aver imparato tutto il resto dalle tante persone che ho incontrato, conosciuto e anche da quelli che ho semplicemente visto in scena da spettatore. Essere spettatori, esserlo il più possibile, è quanto di più formativo si possa trovare. Esserlo dopo aver acquisito un proprio modo, vuol dire riuscire a processare quanto si incontra attraverso le proprie sensibilità e a scegliere quanto aggiungere alla formazione e quanto lasciare invece alla semplice informazione. Ogni serata in scena, poi, aggiunge qualcosa. Dal palcoscenico abbiamo il privilegio dell'ascolto e possiamo sentire ogni platea».
Che cosa è per lei il teatro e come ci è arrivato?
«Il teatro è quanto sta lì davanti a noi, a volte distante a volte vicinissimo. Non ci sono arrivato. non ci si arriva. Il teatro lo si incontra in certi brevissimi momenti di certe pochissime volte. Non si può toccare, non si detiene, non si trattiene. Il teatro 'siamo'. Per quanto mi riguarda, il teatro è il tentativo di ogni spettacolo. Lo spettacolo è un'occasione per il teatro, ma non ci è dato, non è programmabile, non è strategicamente prevedibile. Evviva, non può esserlo».
Ha un modello di attore a cui si è ispirato o che le ha rivelato la via del teatro?
«In effetti no e non per vezzo o non riconoscenza. Sono cresciuto senza modelli e miti di riferimento, cresciuto dentro una grandissima cura e capacità di verità. Sono cresciuto al riparo di tanti Maestri e protetto nella mia presunzione. Da Perla, a un certo punto, pensandoci anni dopo, ebbi l'impressione di aver imparato qualcosa che non si può insegnare: il Teatro non si può insegnare, ma si può imparare»
Vedendola in scena uno pensa a Carmelo Bene?
«Non lo so. Qualcuno ogni tanto me lo dice e allora rispondo con una battuta: se è vero mi dispiace per Carmelo Bene. Se è vero, più seriamente, penso dipenda dal fatto che alcuni miei fondamentali hanno a che fare con lo stare in scena e con alcuni approfondimenti sull'uso della voce e delle possibilità dell'amplificazione. Solo questo. La grandezza di Carmelo Bene è senza eredi, come quella dei più grandi».
Nelle sue produzioni c'è una frequentazione dei classici e dei grandi miti narrativo/drammaturgici della scena occidentale. Un caso o una necessità?
«Un'occasione. Ho sempre pensato ai classici come a un'occasione. I classici permettono di puntare più direttamente al Teatro perché se effettivamente non fosse così non so che necessità avremmo di riproporli. Appunto Carmelo Bene diceva 'restituirli'».
Fra le figure su cui è tornato più volte c'è Iago. Come mai?
«Iago è un personaggio perfetto rispetto a quanto mi interessa. Lo è perché l'Otello è la tragedia della parola e penso lo sia più di ogni altra. Succede davvero poco eppure si ha una sensazione di movimento incredibile. Iago quasi non ha nessuna azione. Sceglie solo le parole. Sembra che abbia a che fare con la scelta delle sue parole, del tempo delle sue parole, con i modi del suo parlare. In realtà, Iago costruisce la qualità del suo silenzio. Tutte le parole che dice costruiscono silenzi. Le sue parole sono piene di silenzi. Iago non è il maestro delle parole è il maestro dei silenzi».
Quasi un paradosso se si pensa all'uso che lei fa dell'amplificazione della voce?
«Proprio lavorando con l'amplificazione ho capito a un certo punto questa cosa molto importante per me: i microfoni amplificano il silenzio e le parole dette sono necessarie alla sua qualità».
Se uno pensa a Roberto Latini pensa a un teatro in solitaria... Un retropensiero o una realtà?
«Una condizione che ha a che fare con il lavoro. In solitaria vuol dire che non riesco a offrire lavoro ad altri, se non in certi casi e quando ho almeno una coproduzione. Non è proprio una questione artistica. Ha a che fare con la possibilità di offrire lavoro e tenere le persone nella dignità del lavoro»
Cosa va cercando ogni sera quando entra in scena?
«Appena lo scopro smetto di andarci».
Come è nato il percorso Noosfera?
«Rifiutando finalmente il concetto di 'progetto'. Noosfera mi ha dato la possibilità di stabilire la mia incapacità di progettare, di avere a che fare con una sapienza, con la capacità di prevedere. Non ho mai trovato la parola 'progetto' adatta al teatro che invece ha bisogno di non sapere, di cercare, di accettare l'abbandono, la sconfitta, l'ignoranza. Sono riuscito a definire 'programma' questo percorso, con il sollievo di poter cambiare idea e di poterlo fare attraverso il lavoro».
Da che urgenza nascono i suoi spettacoli?
«Dalla tentazione. E' una parola così ambigua da poterla spacciare quasi col tentare. Non è vero, ha solo a che vedere con l'essere tentati. Forse con l'idea che qualcos'altro tenta qualcosa attraverso il mio essere tentato. Non posso rispondere più semplicemente, me ne scuso».
Preferisce lavorare da solo o in compagnia?
«Non lavoro mai da solo. Anche quando sono solo in scena ci sono Gianluca Misiti o Max Mugnai o entrambi. Comunque, Gianluca c'è sempre, anche nella sua assenza. Abbiamo preparato il primo spettacolo insieme nella primavera del 1994. Non sono mai stato solo da allora».
La natura monologante dei suoi spettacoli è una necessità o una poetica?
«è solo un'impressione. Ripeto che davvero anche quando sono in scena da solo non sono solo. Ho musiche e suoni con le quali suonare la mia voce o il mio corpo nello spazio. Ho il silenzio intorno a questo. Ho buio e luce e il respiro di tutti i presenti. Sono in dialogo costante. Sono in ascolto e in relazione».
Che legame c'è fra Lucignolo, Titanic e Museum. Si può parlare di naufragio dell'Occidente?
«Penso di sì. E anche della sua attesa o del suo essere ormai affondati o della sua incapacità di compiersi in queste tappe. Come spiegavo prima questo percorso è in divenire, io non lo conosco. Lucignolo è una condizione, Titanic una derivazione e Museum un'aspirazione. Quanto seguirà avrà a che fare con tutto questo, inevitabilmente, certo, e quindi anche con il cadere».
Quale è lo spettacolo o il testo che vorrebbe mettere in scena e non ha ancora osato fare?
«Ce ne sono almeno una decina, a oggi. Non ho ancora osato affrontarli solo per il rispetto del tempo giusto e della giusta condizione. E' però una lista in trasformazione che risalta in modo diverso a seconda del punto di vista. Si sta lì in attesa. Bisogna imparare dall'attesa. L'attesa insegna il tempo giusto per agire, reagire, come sarebbe più adatto al Teatro».
C'è un tipo di teatro, un testo o un regista con cui sa per certo non vorrebbe mai lavorare?
«Con quanto diventa 'rappresentazione' e con certe incapacità rispetto alla ricerca che sono invece 'intrattenimento'. Io detesto essere intrattenuto a Teatro e non sopporto nessuna forma di rappresentazione»
Che rapporto instaura col pubblico? Cosa chiede alla platea e cosa cerca di dare agli spettatori?
«Cerco di fare la verità. Non di dirla, di farla. Questo mette lo spettatore nella condizione di decidere se accettare di averci a che fare o no. Molti preferiscono la consolazione del verosimile o del non volerne sapere di più, altri la protezione del non capire. Non c'è un modo giusto o uno sbagliato. L'importante che nessuno venga a sedersi lì aspettandosi di vedere qualcosa. Spero solo che ognuno si porti via il proprio spettacolo. Non il mio, del mio non so proprio che cosa possano farsene».
Che definizione dà del suo fare teatro?
«A perdere».
La prossima stagione la vedrà impegnato in una produzione importante come l'Arlecchino servitore di due padroni con la regia di Antonio Latella. Perché ha accettato?
«Perché Arlecchino mi è sembrato distante sia da me sia da Antonio. Distante talmente da potersi dare un appuntamento senza che ci fosse comodità per nessuno. Ho accettato per questo e perché credo sarà un piacere riconoscersi arrivando da così lontano»
Come sarà il suo Arlecchino?
«Incapace di rispondere a qualsiasi attesa. Reclamerà di giocare seriamente al gioco serio del Teatro, di farlo invece 'all'improvviso', sera dopo sera e solo lì di fronte a chi sarà in platea»