«In ultima analisi quello che conta è l'intero corpo dell'opera che ci si lascia dietro quando si scompare. È la totalità dell'oeuvre che deve dire qualcosa di speciale riguardo al tempo in cui è stata realizzata. Altrimenti è inutile». Così scrive Rainer Werner Fassbinder parlando della sua produzione di artista poliedrico e prolifico... Parole quelle di Fassbinder che inquadrano come non mai l'approccio all'autore tedesco di Antonio Latella, se non lo stesso modus operandi e creativo del regista napoletano che mette in scena, Ti regalo la mia morte, Veronika, produzione importante e coraggiosa di Ert, teatro nazionale diretto da Pietro Valenti. «Siamo in apnea – dice Antonio Latella qualche giorno prima del debutto del 7 maggio allo Storchi -. Ma so di avere una squadra da wonder women; penso a Monica Piseddu, Nicole Kehrberger, Candida Nieri, Caterina Carpio, Valentina Acca, a cui si affiancano – e non sono da meno – Annibale Pavone, Fabio Pasquini, Maurizio Rippa, Massimo Arbarello, Sebastiano Di Bella e Fabio Bellitti».
Una produzione importante e corposa...
«Se poi si pensa che si tratta di un lavoro su Fassbinder non posso che esprimere la mia gratitudine a Ert e al suo direttore Pietro Valenti che in questi anni ha saputo fare di Modena una capitale del teatro contemporaneo. Credo che una dimostrazione ulteriore sia anche questo mio Ti regalo la mia morte, Veronika».
Torna ad affrontare Fassbinder dopo l'applaudito Le lacrime amare di Petra von Kant del 2006....
«E' così, ma più ci penso più credo che quello spettacolo ebbe troppo successo per essere uno spettacolo fassbinderiano».
Cosa intende dire?
«Mi chiedo se in quell'occasione non tradii la natura provocatoria che è propria di Fassbinder in ogni sua creazione. Le lacrime amare di Petra von Kant è uno spettacolo che ha avuto un grande successo, che è piaciuto tanto per una sua estetica raffinata, magari anche colta ma che non provocava, non dava possibilità di spiazzamenti. Fassbinder dovrebbe essere affrontato come un classico».
Ovvero?
«Fassbinder è un classico del XX secolo, lo si dovrebbe mettere in scena con lo stesso spirito con cui si affrontano i grandi classici della drammaturgia e del teatro, andando in cerca di ciò che scotta, di ciò che sa spiazzarci, del non detto...».
Ed è questo che intende fare con Ti regalo la mia morte, Veronika?
«Ci tentiamo, tanto che il sottotitolo credo sia esplicativo: 'liberamente ispirato alla poetica del cinema fassbinderiano'».
Non c'è dunque solo il penultimo film di Fassbinder nella sua Veronika?
«L'ultimo film, perché Querelle è altra cosa. Per Veronika sono tornato a pensare alla forza visionaria, magari giovanilistica e provocatrice del mio Querelle, ma Veronika è il film ultimo di Fassbinder. In un certo qual modo lo denuncia lo stesso titolo: Ti regalo la mia morte, Veronika».
In che senso?
«Il titolo può riferirsi a Veronika, una sorta di denuncia di suicidio, ma può anche raccontare di un regalo a Veronika. Il soggetto di quel 'Ti regalo la mia morte' è Fassbinder stesso. Non è un caso che questo film sia considerato il suo testamento, in una scena del film, quando lei è al cinema dietro di Veronika Voss s'intravvede Fassbinder... Più chiaro di così. ».
Ma cosa le interessava di Veronika Voss e degli altri personaggi femminili fassbinderiani?
«Con Veronika Fassbinder alza l'asticella del dolore e della sofferenza ad un punto di non ritorno. Veronika Voss è una attrice sul viale del tramonto, vittima di una dottoressa e infermiera senza scrupoli. Veronika è lo specchio in cui si riflette il regista, l'assunzione di sei grammi di cocaina al giorno è di Veronika e di Fassbinder al tempo stesso, è un viaggio nell'abisso di sé che fa emergere altre figure femminili, altre donne fassbinderiane da Maria de Il matrimonio di Maria Braun, a Margot de Paura senza Paura, da Emma Kuster de Il viaggio in cielo di Emma Kuster a Elvira di Un anno con tredici lune».
Nel cast, a parte Monica Piseddu, ci sono attrici che hanno lavorato con lei da Nicole Kehrberger di Medea alle attrici di Francamente me ne infischio. La sua attenzione al mondo femminile è costante, basta pensare fra l'altro a Blanche di Un Tram che si chiama desiderio, ma per certi versi anche all'Isabella Rasponi del suo discusso Arlecchino...
«Fassbinder girando Veronika Voss ha ben presente il Tram di Tennessee Williams. Potremmo dire che se Williams ci dice di Blanche prima del suo ricovero in clinica, Veronika è forse quello che potrebbe essere stata Blanche da ricoverata, la sua discesa in quell'abisso dell'anima in cui immaginazione e realtà si confondono o forse si equivalgono. In Svizzera sto realizzando un Edipo raccontato dal punto di vista di Giocasta e poi c'è il lavoro sulla mamma di Pier Paolo Pasolini... il femminile e la riflessione sul femminino stanno diventando una costante nel mio lavoro, ma c'è un motivo».
Quale?
«Proprio lavorando su Fassbinder e i suoi personaggi al femminile sto riflettendo sulla sopportazione del dolore, in generale e nelle donne in particolare. Le donne non solo sanno accettare il dolore oltre che sopportarlo, ma sanno dare alla sofferenza un senso. L'uomo invece colpito dal dolore si sente sconfitto, debole».
Guardando al cast di Ti regalo la mia morte, Veronika ha da tenere a bada un gruppo di donne dal carattere forte e spiccata personalità
«E' vero, ma anche con un'alta consapevolezza della professionalità d'attrice. Tutta la compagnia si sta mettendo al servizio dello spettacolo, oserei dire di Fassbinder, io compreso. C'è una generale presa in carico dei singoli e del gruppo di questa operazione fassbinderiana che gratifica, che entusiasma. E questo al di là dell'esito e del debutto davanti al pubblico».
Cosa vuole da Ti regalo la mia morte, Veronika?
«Mi piacerebbe facesse discutere, insomma vorrei che la voce provocante e spiazzante di Fassbinder avesse il suo effetto sul pubblico, che ponga interrogativi, che attivi la reazione e il dialogo che sono naturali nel teatro, quando questo dice del nostro essere nel mondo, della nostra condizione presente».
Un po' come è accaduto in Natale in casa Cupiello....
«No perché quelle sono state polemiche legate al rapporto col testo che io ribadisco con forza di aver trattato con tutto l'amore possibile, Eduardo De Filippo fa parte del mio dna. Con ciò mettere in scena Eduardo de Filippo non vuol dire rifare Eduardo, scimmiottarlo.... Con Natale in casa Cupiello le polemiche dei puristi (mah!) hanno avuto la meglio... Quando dico che vorrei che il mio Fassbinder facesse discutere mi riferisco alla necessità che venendo a teatro, avviando il dialogo con ciò che accade in scena qualcosa deve accadere anche nello spettatore. Non mi piace il teatro che non influisce su chi vi assiste, che non chiama in causa uno spiazzamento che dovrebbe portare a riconsiderare parte delle nostre conoscenze o semplicemente mostrarci una prospettiva diversa da cui guardare il mondo o il nostro quotidiano».
Insomma Fassbinder allo Storchi, prodotto da uno stabile nazionale come l'Ert: c'è più di un motivo per una riflessione sulla politica del teatro e della contemporaneità in scena...
«Beh Ert e Modena sono un esempio importante, che credo faccia scuola rispetto a quanto accade altrove. Credo che la scelta di Pietro Valenti di produrre registi che hanno una forte cifra contemporanea e di proporli nei cartelloni tradizionale vada in una direzione della formazione del pubblico, di un pubblico contemporaneo. E' logico che se in un cartellone di prosa metto un Romeo Castellucci questo sembra un ufo e la protesta del pubblico più tradizionale è quasi scontata, ma se pian piano a fianco di scelte diciamo della 'tradizione' si pongono spettacoli legati al contemporaneo la sensazione di extraterrestri che atterrano sul palco del teatro della città va via via sfumando. Questo credo sia il compito dei direttori artistici, mettere in atto strategie per la creazione di un nuovo pubblico, o meglio di un pubblico che sappia e abbia l'opportunità di confrontarsi con i diversi linguaggi della scena. Questo credo accada da anni a Modena, divenuta – come dicevo all'inizio – una capitale per il teatro contemporaneo in cui il dialogo fra ciò che è in scena e i territori è costante, costruito passo passo, in un'ottica di formazione di uno spettatore curioso e disponibile alle prospettive che può offrire il teatro, quel teatro che spiazza, fa discutere, pone nuovi punti di vista possibili sulla realtà».
«Sono bugie, Peer, nient'altro che bugie», esordisce Aase, madre di Peer Gynt, aprendo il grande poema scenico di Henrik Ibsen con cui ha deciso di confrontarsi Antonio Latella, avvalendosi della riscrittura drammaturgica di Linda Dalisi, spostandosi fino in Siberia per lavorare con gli attori del Teatro Staryj Dom di Novosibirsk. Peer Gynt torna in scena il 13 aprile e 4 maggio prossimi nella lontana Siberia in attesa che – si sta lavorando in questa direzione – lo spettacolo possa prima o poi approdare in Italia, si tratta di una coproduzione fra il teatro russo e la compagnia di Antonio Latella, Stabilemobile, un bell'esempio di imprenditoria teatrale che non rinuncia alla vertigine dell'arte pur proponendosi sul mercato teatrale, ormai non solo quello dei festival o della ricerca ma con atto politico anche nelle stagioni più tradizionali. Anche questo aspetto fa della politica estetica di Antonio Latella e della sua compagnia stabile nell'idea di perseguire il teatro d'arte, ma mobile nei territori da esperire sia linguisticamente che geograficamente. Peer Gynt segna la conclusione della Tetralogia sulla Menzogna che si è composta di A.H. performance legata alla figura di Adolf Hitler, prodotta da stabile mobile e da Centrale Fies, Le Benevole nell'adattamento di Federico Bellini del romanzo di Jonathan Littel, prodotto da Schauspielhaus Wien in collaborazione con Stabilemobile, e Il servitore di due padroni su drammaturgia di Ken Ponzio, prodotto da Ert, Stabile del Veneto e Metastasio, che nella stagione che volge al termine molto ha fatto discutere, ma senza dubbio ha proposto un modo intelligente ed esteticamente spiazzante di leggere testi come quello goldoniano, imbalsamati dalla tradizione. Detto questo Peer Gynt chiude un viaggio alla ricerca della verità che si nasconde dietro la menzogna, o come afferma ancora Aase nelle scene iniziali di Peer Gynt: «capita qualche volta che dietro tante frange, dietro un bel paravento, si nasconda una bugia. Ed è celata così bene, allora, che è quasi impossibile trarne la scarna verità». Quella verità che Peer Gynt va cercando partendo da se stesso, «di rinvio in rinvio, cercando di esorcizzare la sua sorte di annichilimento», scrive Franco Perrelli in una fuga continua che è continua e suprema perdita, ma anche inafferrabilità di un testo e personaggio che affascina e rappresenta uno dei topoi della letteratura e cultura occidentali. In attesa di poter vedere anche in Italia Peer Gynt, Antono Latella spiega in esclusiva per Sipario le motivazioni di una produzione così particolare, il di più di quegli attori siberiani con cui ha trovato un feeling unico, e non da ultimo il respiro internazionale, europeo del suo fare teatro in cui i confini non esistono, in cui la differenze delle culture e sensibilità estetiche è risorsa unica per un'arte e un teatro europei.
Inevitabile chiedere il perché di Peer Gynt di Ibsen, testo complesso e irrappresentabile?
«È un testo che ho letto per anni, un testo che si è evoluto con il susseguirsi dei compleanni; da giovane pensavo che fosse una favola poi ho cominciato a pensare che fosse un testo filosofico,poi una commedia umana ed è incredibile come ad ogni rilettura è diventato qualcosa di completamente diverso».
E' questo il fascino del testo ibseniano?
«Sembra metterti davanti al tuo girovagare nel mondo e ad ogni crocicchio ti fa vedere a che punto sei arrivato.La potenza della scrittura di Ibsen, che non voleva che questo testo si rappresentasse, cambia continuamente linguaggio come se nell'evoluzione della lingua ci fosse il vero viaggiare.Mi sembra giusto chiudere con questo lavoro il percorso fatto con Stabilemobile sulla menzogna, è il testo che racchiude e comprende meglio la vera discussione su questa tematica».
Che scrittura drammaturgica e attoriale hai messo in atto rispetto al poema fiume ibseniano?
«È stato fondamentale in questa lunga attesa trovare Peer Gynt, l'ho aspettato per anni e l'ho trovato lontano e dall'Europa. A meno quaranta gradi, nella Russia siberiana che non è e non sarà mai Mosca, l'ho trovato in un talento puro, potente, naturale. Un talento che cerca come Peer di fuggire da se per continuare a fantasticare, si chiama Anatoly Grigoriev. Ovviamente l'adattamento è stato fatto pensando a lui con Linda Dalisi».
Come hai operato con Dalisi?
«Mi interessava un lavoro che eliminasse il fantastico, facendo di Peer ragazzo un corpo mappamondo. Tutto sta nella sua testa, tutto esiste perché lui può farlo esistere, tutto c'è fino a quando possiamo porci la domanda: conosci te stesso? Siamo davanti ad un'opera impossibile da mettere in scena per la quantità incredibile di azioni e situazioni, non è possibile riuscire in uno spettacoloa centrare tutti gli obiettivi proposti dallo stesso Ibsen, quindi abbiamo scelto di riscrivere il quarto atto, quello che resta più estraneo per la differenza dei luoghi e per il cambiamento radicale del linguaggio. Peer dopo la morte della madre non può più abitare i luoghi della fantasia, non sa più trasformare un fiammifero in un albero;si affaccia al '900, prega solo per l´accumulo del capitale, quindi in questa Russia che vuole essere Occidente abbiamo pensato che era importante, vedendo l'Egitto del quarto atto come metafora del capitale attraverso la sfinge, trovare una lingua molto violenta,senza metafore, chirurgicamente spietata nel vivisezionare il corpo e la mente umana. Una lingua senza emozione,lontana dal romanticismo ottocentesco per poi riconsegnare nell´ultimo atto Peer alla tradizione della memoria,facendolo ritornare a morire tra le braccia di quella Solveig forse mai esistita,tra le braccia di quella madre fantasma, forse unica donna amata. Tornare ad essere poema».
In che modo Peer Gynt si inserisce nel lavoro dedicato alla menzogna?
«È il punto di arrivo, abbiamo attraverso la menzogna orrenda ed ingannatrice del Novecento in A.H e ne Le benevole, abbiamo affrontato la menzogna del primo servitore della commedia goldoniana capendo che forse la menzogna aveva bisogno di ritrovare un tentativo di verità nel nostro stare al servizio sempre e solo del teatro. Peer Gynt è il testo della letteratura teatrale che sceglie un protagonista che dice fandonie, ma forse le sue fandonie sono la capacità di rendere sopportabile il dolore dello stare al mondo senza sapere perché siamo chiamati a questa prova enorme del vivere».
Che rapporti tematici ed estetici ci sono con gli allestimenti dell'Arlecchino, Le Benevole e A. H.?
«L'impossibilità di vivere il palco soltanto come luogo della rappresentazione ma accettarne la scommessa della creazione; è lì che noi teatranti siamo chiamati a creare la più nobile menzogna che possa dare verità agli spettatori. In tutti e quattro i lavori abbiamo cercato di stare dietro la maschera, che sia un baffetto, una maschera a forma di gatto, che sia un sorriso stampato o un bicchiere di troppo. Eliminare la cartapesta per restituire al palco la sola forza creatrice e in quel nulla che è vero creatore, immergere i corpi degli attori che affrontano la sfida dell'essere vettori attraversati dalla memoria e dal presente».
Le Benevole ha avuto una genesi in Austria, Arlecchino e A. H. in Italia, Peer Gynt in Siberia... Cosa vuol dire lavorare con attori di diversa nazionalità e formazione, come muta la relazione che si instaura fra regista e interpreti?
«Essere lì solo per loro, essere lì senza distrazioni,essere nei loro corpi e nelle loro parole e nei loro gesti, annullarsi per farsi abbracciare dalle differenti culture, dalle differenti esigenze del fare teatro. Gli attori sono totalmente diversi da paese a paese, da nazione a nazione, da continente a continente soprattutto per come si sentono politicamente rappresentati come attori e come cittadini».
E un regista come deve comportarsi di fronte a tanta variabilità?
«Un regista deve accettare di dimenticarsi di se stesso, solo cosi può essere pronto a cogliere l'attimo che in alcuni casi si lascia attendere giorni e giorni e in altri casi arriva subito già nelle prime ore. Tutto sta ad afferrarlo e per esserne capaci bisogna provare a diventare cittadino e non solo ospite delle case e dei teatri stranieri che ti chiamano a dirigere delle storie. Credo che questo sia il lavoro che spetta ad un regista che si divide tra più attori e quindi tra più storie di vita. Ancora più difficile è accettare la sconfitta dell'attimo che forse non arriverà; in quel caso la regia deve sapere riempirne l'assenza ritornando ad abitare i perché che ti hanno spinto a stare lontano dal tuo paese».
Cosa hai trovato negli attori siberiani? Che differenza c'è a lavorare con loro?
«Il concetto di carriera è lontano anni luce da quello occidentale, loro hanno ancora il coraggio di parlare di anima,fanno teatro per nutrire la loro anima, che tra noi occidentali rischia di diventare una parolaccia, fanno teatro per vocazione, per scelta di vita e guadagnano pochissimo. Hanno ancora il coraggio di parlare di poesia e di gesto poetico e rendono credibile qualsiasi astrazione registica e concettuale per la loro grande umanità. Lavorare con loro vuol dire amarli totalmente senza tirarsi indietro, non ci si può risparmiare. Loro ti danno tutto quello che possono dartie non hanno paura di distruggersi dalla fatica. La pedagogia diventa la possibilità di portarli lontano dal loro impeccabile realismo e metterli davanti a nuovi mondi linguistici, forse scontati qui da noi ma valorizzati da loro grazie all'enorme adesione e al loro altissimo livello tecnico».
Se Peer Gynt, Le Benevole, A. H. e Arlecchino si legano, o rappresentano un unico discorso sulla menzogna e il teatro, produzioni così distanti e spettacoli così lontani non rischiano di far perdere l'unitarietà del discorso?
«No perché io ne sono testimone assieme a tutti i collaboratori della mia compagnia. Cerchiamo di evolvere senza ripeterci e questo aiuta ad affinare il senso della ricerca che è stato il primo motivo che ha fatto nascere Stabilemobile: il bisogno di un movimento che riempia l'unica stabilità che ha un senso, la libertà creativa».
Credi che ci siano possibilità di vedere i lavori in Italia?
«Credo che sia importante crearla, non per una questione di visibilità legata al mio lavoro,ma per gli attori che vi assicuro vale la pena di applaudire».
La sfida è lanciata, ora non resta che ai teatri italiani la possibilità di coglierla e magari immaginare una tournée di Peer Gynt nell'Italia che fu in parte complice nella genesi del grande testo ibseniano...
PEER GYNT
di Henrik Ibsen
regia Antonio Latella
drammaturga Linda Dalisi
con Anatoly Grigoriev, Sergey Drozdov, Vitaly Sajanok, Larisa Chernobaeva, Anastasia Panina,
Svetlana Marchenko, Evgeny Petrochenko, Valentina Voroshilova,
Olesja Kuzbar, Irina Popova, Jana Balutina, Timofey Mamlin
scene e costumi Graziella Pepe
movimenti Francesco Manetti
luci Valeriy Klimov
suono Aleksandra Kirshina
interprete Liana Vinikurova
assistente alla regia Anna Zinovieva
production Brunella Giolivo
management Michele Mele
produzione Staryj Dom - Novosibirsk, stabilemobile compagnia Antonio Latella