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EVERY BRILLIANT THING – regia Fabrizio Arcuri

Johnny Donahoe in "Every Brilliant Thing", regia Fabrizio Arcuri. Foto Alessandro Calvi Johnny Donahoe in "Every Brilliant Thing", regia Fabrizio Arcuri. Foto Alessandro Calvi

di Duncan Macmillan
con Johnny Donahoe
traduzione di Michele Panella
regia di Fabrizio Arcuri, co-regia e interpretazione di Filippo Nigro
co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG/Sardegna Teatro
Spettacolo vincitore del Premio nazionale Franco Enriquez 2022
Teatro della Tosse di Genova, ospite della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, 3 novembre alle 2023

www.Sipario.it, 5 novembre 2023

Appare come un delicatissimo, ma coerente, rimescolamento di contenuto e forma questa drammaturgia del giovane (1980) autore britannico Duncan Macmillan, con nome scozzese latamente shakespeariano, scritta con Johnny Donahoe, perché in effetti destruttura con intelligenza la forma consueta del dramma per accogliere una narrazione che supera il monologo autobiografico, per aprirsi quasi al romanzo epistolare, di cui ricorda la sintassi, che risulta forse al drammaturgo stesso la forma più adatta a quel particolare dialogo con il pubblico, non un diseguale coinvolgimento di quest'ultimo ma un rischio drammaturgico insieme affrontato, che rende ancor più perspicuo ed apprezzabile il suo intimo contenuto, sorta di potenza in atto recuperata in condivisione.

Every Brilliant Thing è una pièce del 2013, di buon successo in area anglosassone, sbarcata in Italia nel 2021, nella bella traduzione di Michele Panella, ad iniziativa e nella realizzazione di Frabrizio Arcuri, regista, e di Filippo Nigro, co-regista ed interprete, gli stessi che oggi ne ripropongono la versione.

Ri-propongono non nel senso tradizionale del verbo, ma nel senso che quella stessa drammaturgia non è mai 'la stessa', si perdoni il bisticcio, poiché costruita come detto in e per una dimensione aperta, in cui è in gioco sempre, e a rischio anche ricordiamolo, il filo della narrazione mentre si compone nella interazione dell'attore con sé stesso, autofiction è chiamata ma più tradizionalmente è recitazione che si fa anche, o suo malgrado se vogliamo, singolare indagine esistenziale, e soprattutto nella interazione dell'attore (e quindi del drammaturgo) con il suo (?) variante e variabile pubblico.

Una simile varianza, sempre inattesa ma anche sempre in coerenza narrativa, è del resto consentita proprio da una scrittura autonoma e così fortemente strutturara da essere in grado di assorbire con elasticità e agevolante semplicità ogni eventuale slittamento o scarto, così da riportarlo entro il contesto creativo.

È un racconto di una vita (a partire dai sette anni di età) tracciata, come le mappe del tesoro o anche le briciole di un Pollicino, e poi rintracciata dentro l'elenco delle cose che rendono bella la vita, scritto per (e per salvare) la madre amata ma non capìta, alle prese con la depressione cronica e le conseguenti pulsioni suicide.

In apparenza estetica però, in realtà la drammaturgia narra e parla, attraverso i riflessi, quasi macchie di colore cadute a caso, dentro la vita di un individuo narrante, ma concretamente vivo e dolente, della depressione stessa, della vita che non si ama quando non la si ama, del lancinante dolore dell'altrui suicidio, un dolore che deve essere lentamente distillato e reso leggero come l'alcol dal limaccioso mosto d'uva.

Quella vita è lo specchio, il testimone di qualcosa che riguarda tutti e l'ironia che, inevitabile difesa e necessaria lente di comprensione, ne pervade la narrazione facilita, anche nella risata, amara o piena che sia, la condivisione.

D'altra parte, andando a quello che questa drammaturgia non è, non è una indagine sulla malattia, pur portando questa indagine ineludibilmente con sé anche i suoi aspetti medici, è una indagine sull'ombra che la malattia proietta sulla vita, è una indagine infine sulla sensazione, meglio sul sentimento proprio di questa malattia, sociale e del secolo non a caso.

Non si usa il palcoscenico, anzi è tutto un palcoscenico, cioè la platea inusualmente illuminata e stra-ordinariamente condivisa con attore e regista, lo sfondo del dramma raccontato, come il tempo lo è di quella vita, e la regia è abile a lasciare il necessario spazio alla spontaneità e anche alla imprevedibilità della rappresentazione e della recitazione, una regia quella di Fabrizio Arcuri cui necessariamente, per il meccanismo stesso della drammaturgia, Filippo Nigro è partecipe, quasi bisognassero quattro mani per portare in teatro questa commedia agra anch'essa costruita a quattro mani, di cui due del suo primo interprete.

Ottima, infine, la prova di Nigro che dimostra spontaneità recitativa non comune ed insieme, nella profonda immedesimazione, una capacità di controllo e guida delle emozioni che ben si palesa in quella nutrita parte di pubblico chiamata a direttamente collaborare alla messa in scena e che ha dimostrato una agilità ed una prontezza inusuali.

La sala Campana del Teatro della Tosse ha rappresentato un contesto molto adatto al pieno sviluppo delle potenzialità estetiche descritte, e chi ha riempito la sala, rappresentando le più diverse generazioni, ha corrisposto con lunghi applausi ed anche ovazioni.

Una bella e accurata scelta della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse.

Maria Dolores Pesce

Ultima modifica il Lunedì, 06 Novembre 2023 12:03

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