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WERTHER - regia Giorgia Guerra

"Werther", regia Giorgia Guerra. Foto Rosellina Garbo "Werther", regia Giorgia Guerra. Foto Rosellina Garbo

Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Musica di Jules Massenet

Libretto di Edouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann

Direttore Omer Meir Wellber

Regia Giorgia Guerra

Scene Monica Bernardi

Costumi Lorena Marin
con Francesco Meli, Shalva Mukeria, Veronica Simeoni, Marina Comparato, Serena Gamberoni,
Christian Senn, Nicolò Ceriani, Francesco Pittari, Claudio Levantino

Orchestra e Coro di voci bianche del Teatro Massimo

Nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con Auditorio de Tenerife

Palermo, Teatro Massimo dal 26 maggio al 1 giugno 2017

www.Sipario.it, 28 maggio 2017

Il Werther di Jules Massenet è un'opera misteriosa. Contiene un quid d'imponderabile che intensamente andrebbe ricercato e ricreato ad ogni rappresentazione.
E' come se il protagonista possedesse un'anima amplificata, tra il canto e l'orchestra. Anche nel momento in cui Werther tace sul palcoscenico, la sua anima incalza dal golfo mistico. Dunque non è possibile eseguire quest'opera nel pieno del suo fulgore senza che anche l'orchestra "canti".
E purtroppo a Palermo, alla prima del 26 maggio 2017, la bella orchestra del Teatro Massimo, diretta dal giovane Maestro israeliano Omer Meir Wellber non ha "cantato" a sufficenza. Il Direttore, al debutto in quest'opera, non è sceso in profondità, non ha fatto vibrare in orchestra quelle corde e prodotto quelle sensazioni che devono giungere all'ascoltatore e sono capaci di farlo sprofondare in un'unione viscerale con il capolavoro.
Al Massimo non si sono sentite le sottese vibrazioni, gli affondi non sono stati pregnanti, non è stato fornito l'adeguato supporto agli interpreti. Solo i tempi si sono dimostrati abbastanza corretti, pur se a volte un po' troppo spediti: la piattezza ha regnato, insieme alla pochezza dei coloriti, secondo dinamiche prettamente sinfoniche e molto poco aderenti alla "Tradition Française": il Maestro, infatti, è sembrato stare attento alle sottolineature dell'aspetto lirico e descrittivo dell'opera, trascurando tutto il resto.
Al tacere del canto dell'orchestra, il protagonista Francesco Meli, Werther, dunque, si è visto costretto a cantare come "a metà". L'interprete ha però mostrato indubbie doti d'introspezione riguardo al personaggio, che era stato visibilmente a lungo studiato e spesso impersonato: l'esperienza c'era e si sentiva tutta, insieme alla voce di bella qualità ed all'accurata modulazione, mai gridata, pur se in alcuni piano lo si è sentito indulgere più al falsetto che al canto francese, che falsetto non è. Veniva da pensare con un certo rammarico che se il Meli fosse stato supportato meglio dall'orchestra e affiancato da una degna Charlotte, sarebbe stato un Werther efficace.
Invece, la Charlotte di Veronica Simeoni non ha brillato, dotata di una voce affidata nello studio all'esperienza di Raina Kabaiwanska, presente a Palermo a questa prima, ma che vocalmente, purtroppo, della grande Maestra non ha la proiezione, né lo squillo né il nitore degli acuti, dimostrandosi opaca, a tratti calante e soprattutto priva di espressività: il pathos è mancato nella sua interpretazione, non solo vocalmente, ma anche sulla scena. L'emozione nei duetti giungeva solo dal Meli e i duetti si cantano e s'interpretano in due.
Incolore vocalmente e per giunta non aiutata dalla regia che troppo la confondeva con uno sciame di bambini che faceva solo confusione sul palcoscenico, la Sophie di Serena Gamberoni, che è parsa sconoscere il canto francese, non solo nella pronuncia e nel pesante fraseggio, ma anche nello spirito del personaggio.
Gradevole Le Bailli di Nicolò Ceriani; vocalmente scabro e dal fraseggio poco fluido l'Albert di Christian Senn; scombinati in ogni senso e fuori tempo lo Johann e lo Schmidt di Claudio Levantino e Francesco Pittari.
Ma, per tornare al nuovo allestimento del teatro Massimo, in coproduzione con l'Auditorio de Tenerife, per la regia di Giorgia Guerra, lo si è visto ambientato negli ormai inflazionati anni '50.
Le scene dagli interni sussiegosi, che all'esterno del secondo atto sembravano invece riciclate da qualche passata Sonnambula, tranne che per le altalene rese con i copertoni di gomma nera per sedili, erano di Monica Bernardi, pesantemente illuminate da Bruno Ciulli e condite dai costumi impersonali di Lorena Marin: la si è vista piuttosto ambiziosa questa produzione, ispirata alla cinematografia di quegli anni, come fosse stata un filmone strappalacrime in bianco e nero. Con comparse in platea solo all'inizio, che, rumorose, interferivano con le note del preludio dell'opera, la produzione diretta dalla Guerra aveva intenzioni di originalità, con tanto di proiettore in scena e, nel corso dell'azione, con ricreate chiusure d'otturatore tramite le quinte mobili, che volevano arieggiare i primi piani del film e provavano a lasciare immaginare che la Sala del Massimo fosse un cinema d'epoca.
In realtà, l'effetto complessivo è stato poco efficace e soprattutto infarcito d'incongruenze, errori, arbitrarietà registiche, che hanno reso la messa in scena assai discutibile, scopiazzata ma soprattutto dilettantesca.
Si è già accennato ai bambini del coro di voci bianche diretto da Salvatore Punturo, troppi e invasivi anche al secondo atto, scena in cui compariva pure un improbabile carrettello delle bibite, accanto al quale, al posto del vino o della birra, Johann e Schmidt sembravano brindare con una presunta limonata; ma si citi lo svarione più vistoso: al terzo atto, Albert era situato dalla regia al piano di sopra della propria magione mentre si assisteva al ritorno di Werther alla vigilia di Natale, in cui una stralunata Charlotte esclamava il suo "Ciel! Werther!" prima che il protagonista comparisse dalla porta d'ingresso (telepatia?); e si è visto il marito geloso poi scendere in giacca da camera e trovare poggiato su un tavolino da Werther il biglietto di richiesta delle pistole, che avrebbe dovuto essere consegnato da un messo venuto da fuori. Il padrone di casa si sarebbe dovuto chiedere quanto meno cosa ci facesse lì quel biglietto e chi ce lo avesse messo e come e quando e perché, mentre egli stesso si trovava in un'altra stanza! Sarebbe occorsa un'apposita aggiunta al libretto...
Per non parlare del quarto atto, un collage di finali variegati da varie produzioni sia teatrali che video, riconoscibilissime, tra New York, Torino e Vienna, che si potrebbero citare ad una ad una.
Insomma: le ambizioni complessive di una produzione andrebbero meglio distribuite e riposte...E mentre questo Werther assai poco francese andava in scena in première a Palermo, la mente dello spettatore non poteva che tornare al teatro greco di Taormina, dove i grandi della terra, riuniti per il G7, avevano appena finito di ascoltare una celebrazione della Sicilia con le note di Cavalleria rusticana, nella colpevole, assoluta ignoranza del genio di Vincenzo Bellini da parte di chi avesse realizzato il programma.
Sicilia all'Opera: O tempora, o mores!

Natalia Di Bartolo

Ultima modifica il Lunedì, 29 Maggio 2017 01:32

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