PRIMA DANZA, POI PENSA
Alla ricerca di Beckett
(tit. orig. DANCE FIRST - A Life of Samuel Beckett)
Un film di James Marsh
Con Gabriel Byrne, Fionn O’Shea, Sandrine Bonnaire, Aidan Gillen, Maxine Peake,
Bronagh Gallagher, Robert Aramayo, Léonie Lojkine, Gráinne Good
Scritto da Neil Forsyth
Data di uscita: 1 febbraio 2024
Distribuzione: BiM Distribuzione
Visto in anteprima all’Anteo Palazzo del Cinema, Milano, il 23 gennaio 2024
“Prima danza, poi pensa”, titolo dal sapore dionisiaco, che sembra suggerire un pensare che proceda dal corpo, e che potrebbe intendersi anche come un bonario rimprovero alla pensosità dell’introverso personaggio che vediamo nella prima parte del film: un ventenne tutto testa, Beckett appunto, già indipendente, scappato da Dublino per Parigi, che, in una scena, non riesce a seguire il “charleston”, in un locale da ballo, della sua giovane amica Lucia, la figlia, “clinicamente pazza”, nientemeno che di James Joyce. Un Joyce casalingo e disilluso che il giovane scrittore aveva agganciato, dopo vari tentativi, in un caffè. Il titolo torna poi verso la fine del film a suggello del racconto: quella frase è la risposta di un Beckett ormai celebre a uno studente che gli chiede consigli sulla scrittura. La danza – esistenziale – che vediamo nel film è invece quella di un artista che, sul punto di ricevere il premio più ambito in assoluto, il Nobel, si ritrova al contempo a interrogarsi su di sé, sulla propria vita. L’onda dell’autoanalisi lo ghermirà subito dopo aver detto alla moglie, mentre sta per alzarsi dalla poltrona del teatro reale, che quel premio: “è una catastrofe”. Qui si può cogliere una prima chiave di lettura dell’opera: il fatto che quella di Beckett sia una vita alla continua ricerca di qualcosa che vada al di là della dinamica vitalistica successo/insuccesso; una ricerca che investe in pieno la letteratura come strumento di conoscenza di sé, in una lotta ininterrotta anche contro la tentazione della “vittoria”. Con un coup de théâtre in avvio che, mentre sembra confermarlo, ribalta beffardamente uno stereotipo da biopic (che sia scena di premiazione o altro di solito messa lì per sciorinare poi l’epica dell’“uno su mille ce la fa”), il personaggio Beckett si ritrova così a dialogare con un proprio alter ego in una sorta di caverna, circondato da una roccia che pare la materializzazione della petrosità e scabrezza della sua stessa scrittura. Da quella caverna interiore prende il via la successione dei ricordi, non secondo l’ordine del tempo, ma delle figure cardine della sua vita: quattro donne e un uomo, scandita per capitoli: Mother, Lucia, Suzanne, Barbara, Alfie (unico uomo).
Il film è asciutto, senza appesantimenti sentimentali, ben recitato. I salti temporali sono fluidi (dall’infanzia alla morte). Non si vede (quasi) mai Beckett al tavolino (e questo è un bene). Meno convincente il fatto che sia trascurato un fatto essenziale: e cioè che a partire da Godot (1953) la vita di Beckett è alquanto condizionata dal lavoro teatrale. Non solo la scrittura, ma le regie che da un certo momento in poi comincia a realizzare in giro per il mondo. Il Beckett uomo di teatro, e il suo teatro, non si vedono mai. Solo un momento del debutto di “Play” e nient’altro. Certo, per il grande pubblico può essere più intrigante avere a che fare con una figura di scrittore-e-basta (con tutto il retaggio di prestigio culturale che ne può irradiare) piuttosto che “solo” con un drammaturgo. In ultima analisi il taglio del film predilige “una vita di Samuel Beckett” (così il sottotitolo originale), che è poi quella che emerge dal suo rapporto con le figure cardine di cui si è detto, soprattutto femminili.
Franco Acquaviva