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 Luca Zacchini e Giulia Zacchini



CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO - di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi,
 Luca Zacchini e Giulia Zacchini



"Ci scusiamo per il disagio", di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi,
 Luca Zacchini e Giulia Zacchini

 "Ci scusiamo per il disagio", di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi,
 Luca Zacchini e Giulia Zacchini



Uno spettacolo teatrale de Gli Omini

di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi,

Luca Zacchini e Giulia Zacchini


Primo spettacolo del Progetto T,
prodotto dall'Associazione Teatrale Pistoiese
e ideato da Gli Omini
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano il 17 maggio 2017

www.Sipario.it, 22 maggio 2017

"Ci scusiamo per il disagio" è una di quelle frasi che un po' ci perseguitano; da avvertenza per disservizi vari, la si trova ormai dappertutto; una frase passepartout che un giorno potrebbe finire chissà anche sui pacchetti di sigarette, sulle bibite gassate, sulla carne rossa, sui tetti di amianto, sui cartelli che indicano le discariche, o sostituire il segnale di occupato del telefono. "Ci scusiamo per il disagio" è la frase che nasconde la cattiva coscienza, contiene il riconoscimento del disagio che si sta infliggendo e il chiederne venia, ma proprio per questo è doppiamente insidiosa: sia perché tende a disarmare colui al quale è rivolta, sia perché non indica una soluzione; e se d'altra parte sembra alludere alla temporaneità del problema, afferma in realtà solo una dilazione al suo superamento. Una dilazione senza scadenza. Un disagio che non scade mai. Un prodotto sempre fresco. Uno dei prodotti più in voga del turbo capitalismo con disfunzionalità avanzata.

E nello spazio di una dilazione sempre rinnovata sembra collocarsi lo spettacolo degli Omini; una dilazione della vita, che si condensa per momenti nel pulviscolo di microstorie emergenti da un gruppo di personaggi eterogenei che campeggiano, prendono campo e insieme paiono proprio abitare, una stazione ferroviaria della profonda provincia italiana.

Accompagnati dalla voce di un trombino d'altri tempi che scandisce metallicamente le informazioni di servizio e va progressivamente anch'esso fuori servizio, o meglio in dis-servizio e sembra informare, e poi subito disinforma e deforma le indicazioni, le sbaglia, entra nella vita dei personaggi, vi interviene, ne devia gli itinerari, si avvita in una reiterazione dell'informazione bacata; ché, se e quando le macchine prenderanno il potere – viene da pensare - prenderanno probabilmente su di sé anche il carico di imbecillità tipico degli umani; ecco allora che un'umanizzazione del trombino non può che passare da lì: dallo sbalestramento indotto forse dai comportamenti altrettanto sballati dei personaggi, sottoposti a loro volta alla recrudescenza del messaggio meccanico disassato, al suo rictus informativo.

La voce del trombino scandisce anche il cambio da un personaggio e da una situazione all'altra: senza cambi di costume, ma con piccoli segni fisici che alterano le posture, e soprattutto con minime variazioni della voce, ecco che tra un annuncio e l'altro prendono vita il marchettaro; il depresso cronico; la coppia economicamente rovinata a cui sono stati tolti i figli; la donna che si è sposata prestissimo come per distrazione; il barbone di Rimini che chiede la sigaretta ecc... La verve e la precisione dei tre attori in scena dona a ogni personaggio una caratteristica tutto sommato convincente: si sorride; e a volte l'accumulazione della serie dei non-sense conduce a una risata liberatoria; non par di vedere altro però che piccole figure in bozzetto, in alcuni casi prevedibili (come il marchettaro, per esempio), spesso troppo riconoscibili come campioni di un'umanità marginale un po' stereotipata; certo, alla fine, dopo gli applausi, uno degli attori rivela che la fonte di questo lavoro – e di tutti i lavori degli Omini, a leggere la presentazione che fanno di se stessi sul loro sito – è in quella che lui chiama una "spedizione anarco-antropologica" in determinati luoghi; in questo caso alla stazione di Pistoia, dove il gruppo è stato un mese, sui binari. E dove, come riporta il sito di compagnia, ha "parlato con la gente. Incontrato alcuni pendolari, molti ex carcerati, altrettanti in libertà vigilata, piccioni, studenti confusi, marchettari, gente che non ha più la macchina, coppie di ogni tipo, amore in ogni forma, piccioni, tossici, barboni suonatori di mandolino, donne che alla stazione leggono e poi parlano come un libro stampato, piccioni".

E' interessante che una giovane compagnia cerchi nel disagio della "spedizione antropologica", che richiede una capacità assoluta di ascolto, i materiali per ispirare il proprio lavoro artistico. Non è certamente usuale, dal momento che è sempre più comodo partire dal teatro o dai libri per arrivare allo spettacolo, piuttosto che dalla vita, e in questo azzardo bisogna dire che la proposta degli Omini si inserisce in una tradizione della quale sono forse ora la realtà più visibile, ma non certo l'unica: si pensi al teatro di comunità che va nei luoghi come il carcere, o i reparti di oncologia, o entra in contatto con gruppi specifici (i richiedenti asilo, per esempio); e come non pensare al padre di tutto questo, il puer eternus Giuliano Scabia, che dalla fine degli anni '60 del secolo scorso ha inaugurato una pratica teatrale inseminando tutto il teatro "a partecipazione" o d'inchiesta successivo, facendo attecchire i semi più diversi nei luoghi più atipici (manicomi, fabbriche, luoghi dimenticati), in un'insurrezione vagante?

Eppure, se a livello di metodo l'approccio appare interessante, esso non sembra influenzare più di tanto lo spettacolo; assistiamo invece alla mera restituzione di una galleria di figure che sembrano rimandare a se stesse e alla propria letteralità ironica o patetica. Se l'esercizio di empatia proposto dagli attori drammaturghi consente loro di entrare dentro a queste vite, quello che allo spettatore arriva però alla fine non è un discorso sulla vita, o sul teatro, o sul senso di ogni vita e delle nostre vite, o quanto meno la forza di una presenza scenica tale da annullare ogni discorsività per farsi epifania, ma qualcosa che non è poi molto diverso da uno scenettismo dal sapore di "già visto"; un raffinato cabaret che prende spunto dalla vita, lo dichiara, ne fa progetto e lo pone alla base del lavoro scenico, ma non riesce a mettere in prospettiva il progetto stesso entro la drammaturgia. Rimane insomma il sospetto che si sia in presenza di una resa al teatralmente accattivante, più che della verità, foss'anche scomoda, fuori misura, di questi personaggi. O è un problema di materiale? Come a dire: che vita può essere quella in una stazione se non una vita da stazione?

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Martedì, 23 Maggio 2017 02:54

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