un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander
tratto dal romanzo omonimo di Ágota Kristóf
adattamento e drammaturgia Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis
scene, luci, video Luigi De Angelis
costumi Gianluca Sbicca
musiche e sound design Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio
allestimento multimediale Michele Mescalchin
scultura di scena Nicola Fagnani
con: Federica Fracassi e con (in ordine alfabetico) Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses
e con la partecipazione in video di: Leone Maria BaioccoYari Montemagno, Marta Malvestiti, Fausto Cabra, Anna Coppola, Giovanni Franzoni, Cloe Romano, Renato Sarti, Mauro Milone, Alfonso De Vreese, Vittorio Consoli, Domenico Iodice, Nicolò Latte Bovio, Andrea Bezziccheri, Ion Donà, Edoardo Sabato, Lorenzo Vio, Giada Ciabini
Visto al Piccolo Teatro Studio “Melato”, Milano, domenica 10 dicembre 2023
Si direbbe che il commento di Manganelli riportato nell’edizione Einaudi del 2000 sia in qualche modo estensibile ad alcune caratteristiche dello spettacolo tratto dal romanzo di Ágota Kristóf: “una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida”. La macchina teatrale messa in campo dalla compagnia non ha nulla di naturalistico, infatti. Se non un paio di elementi scenici: un tavolino e due sedie (e un piano). Il resto, si potrebbe dire, è una ipermarionetta: un meccanismo a orologeria di perturbante familiarità dentro a una fiaba che terrorizza. E sono fili, infatti, a manovrare, per tutta la metà della prima parte, una ridondante danza di schermi che calano e salgono dalla graticcia, a pochi metri dagli spettatori. Sorta di ascensori della memoria che portano frammenti di immagini di una storia esplosa nella testa della Kristòf stessa, che racconta, seduta a un tavolo, ripetendo le parole del suo stesso romanzo, impersonata da una misurata e intensa Federica Fracassi, ideatrice insieme a Fanny & Alexander di tutta l’operazione. Franco Acquaviva
Lo spettacolo mantiene la stessa scansione del romanzo: tre parti, di cui le prime due saldate in un atto unico di un paio d’ore: all’interno di questo si apre la cesura che cambia anche lo spazio. Scompaiono gli schermi, e l’ampio pavimento della scena a pianta semicentrale si ritaglia in zone sagomate da precisissime luci: è il fantasmatico disporsi degli ambienti che ricorrono nella narrazione come gabbie nella gabbia: la casa di Nonna, la Cartoleria, la casa dei genitori, la claustrofobica e enigmatica città di K, insomma: perché gabbia e labirinto è il libro della Kristóf, costruito con una prosa “di perfetta, innaturale secchezza”, per tornare a Manganelli. Secchezza che ritroviamo, intatta, nelle parti descrittive del romanzo che la regia sceglie di far dire agli attori, insieme alle battute, in un non facile esercizio di scarto continuo tra la dizione rilassata, panoramica per così dire, di quasi nude didascalie, e il sussulto in medias res, mai troppo emotivamente caricato in verità (e per fortuna) delle battute.
In questo gioco spicca soprattutto il lavoro di Alessandro Berti e di Lorenzo Gleijeses. Qui avvertiamo chiaramente la necessità di non farsi ingabbiare da certi stereotipi; ripensando al crudele meccanismo che muove i personaggi infatti, sia l’uno che l’altro non aderiscono al dogma di un apparentemente legittimo naturalismo (quanto se ne vede oggi a teatro? Molto, troppo; una specie di diktat non detto della recitazione da serie tv, che si è installata in molta parte del lavoro degli attori, soprattutto tra i più giovani). Si potrebbe dire che questi due straordinari attori in realtà danzano nel corpo la loro parte per tutta la durata dello spettacolo.
Il tema del doppio, e di una certa mostruosità dell’intelligenza, che si specchia nella deformità fisica, richiama ancora, per associazione, la figura siderale dell’ipermarionetta: Mathias, il bambino super dotato, è un enorme pupazzo-statua, gobbo e magrissimo, che, rannicchiato sui talloni, una botola fa sorgere dal pavimento. E la sua cifra vocale, che convoca rabbia e disperata ricerca d’amore, solitudine e prescienza, visione e abisso, è resa magnificamente dalla voce, registrata, della grande poetessa Chandra Candiani.
Tolto qualche didascalismo iniziale, in cui per esempio alle parole “foresta”, “ruscello”, seguono le corrispondenti immagini sugli schermi, e una durata che supera le tre ore (e si avverte chiaramente, in certi punti, che un alleggerimento in tal senso gioverebbe), lo spettacolo scorre, con un sospetto: che siano sempre e solo gli attori i responsabili della bellezza a teatro; mentre la macchina tecnologica, a volte, lavora a sottrarre poesia.