di e con Saverio La Ruina
Teatro dei Filodrammatici, Piacenza, 10 ottobre 2010
Teatro di Messina, Messina dal 16 al 18 marzo 2012
Con Italianesi Saverio La Ruina prosegue il suo viaggio nell'Italia dimenticata di un Sud in cui le storie di sradicamento e di violenza sono una costante antropologica, sono un motivo narrativo che spazia fra urgenza memoriale e storia non scritta. Se con Dissonorata e Laborto il nucleo era la donna e la sessualità femminile in una società tradizionale e maschile, in Italianesi è l'appartenenza a un Paese, l'Italia a interessare all'attore/autore, è la vicenda di migliaia di soldati che alla fine della seconda guerra mondiale rimangono intrappolati in Albania con l'avvento del regime marxista. La storia di Tonino è una di queste. Saverio La Ruina – forse sulla suggestione dei 150 anni dell'unità d'Italia – costruisce un apologo che si basa su storie reali che metaforicamente e retoricamente guardano all'Italia come Paese delle radici, che raccontano la volontà di questi apolidi di ritrovare gli affetti familiari e una proprio paese di appartenenza. Ma in questa ricerca dell'Italia come terra delle relazione e dell'appartenenza c'è anche il rischio di ritrovarsi a vivere il Paese della disillusione.... La storia racconta di Tonino, italianese – crasi fra italiano e albanese – vissuto all'interno di un campo di lavoro, racconta della sua ricerca del padre, idealizzato nella lontananza. Il vivere di Tonino è un vivere in tensione per un ritorno in patria che si rivela deludente, che ricongiunge l'uomo al padre che nel frattempo si è rifatto una vita, che ha il mare come elemento divisorio. Italianesi di e con Saverio La Ruina non ha la stessa concisione e serrata narrazione di Dissonorata e Laborto, appare a tratti retorico e ripetitivo, racconta troppo e allude poco. La stessa presenza solitaria di Saverio La Ruina sul palcoscenico è confusa, non ben delineata, si attorciglia su se stesso, fa della sedia un elemento di appoggio quasi fosse smarrito. Le parole non sostengono La Ruina, lo spazio allontana attore e racconto e sfuma Italianesi in un faticoso lavoro che lascia più di una perplessità. Alla fine – nella proiezione del tricolore – Italianesi si mostra con troppa chiarezza come un componimento d'occasione, senza la dovuta e necessaria lucidità, cui Saverio La Ruina aveva abituato il pubblico con i lavori precedenti.
Nicola Arrigoni
MESSINA Basta una sedia a Saverio La Ruina per raccontare il suo teatro. Un teatro di parole che incantano e ipnotizzano. Parole, questa volta, microfonate che giungono più chiaramente nel cuore e nella mente degli spettatori che rimangono incollati alla poltrona. E' una storia questa degli Italianesi scritta-diretta-interpretata da lui, come spesso accade, che non si trova sui libri di scuola. Non ci sono qui tentativi di omicidio con taniche di benzina intentati dai genitori nei confronti della propria figlia che è stata Dissonorata, né La borto cruento di una donna di 28 anni con 7 figli cercato tra le mammane. No, questa volta La Ruina, non più con abiti femminili ma con camicia bianca, cravatta, golfino bordeaux e pantaloni beige, racconta la storia di un tale Tonino, sarto, di 40 anni. Che s'è trovato a vivere una storia incredibile, consumata a poche miglia dall'Italia, aldilà dell'Adriatico in Albania. Allorquando alla fine della seconda guerra mondiale migliaia di civili e soldati, comprese donne e bambini, rimangono intrappolati in quel pezzo di terra in cui s'è instaurato il regime dittatoriale e sono costretti a subire violenze e persecuzioni come se si trovassero in un lager nazista. La loro sola colpa è di essere italiani. Quegli italiani (però) che nel 1939 occuparono militarmente quel paese annettendolo all'impero. Tonino, sussurra La Ruina con la sua vocina e con la gamba destra zoppicante, nasce nel 1951 e il suo mitico padre, originario della Sardegna, gli insegna il mestiere di sarto e sarà fra i primi a far ritorno in Italia. Invece Tonino, che intanto si sposerà e avrà dei figli, con altre centinaia di connazionali rimarrà a vivere in alloggi circondati da filo spinato, controllato dalla polizia segreta del regime, sottoposto a interrogatori, appelli quotidiani, lavori forzati e torture. In quei campi di prigionia Tonino e gli altri italiani rimarranno 40-anni-40, dimenticati, come dissolti nel nulla. Nel 1991, quando cade il regime, saranno in 365 a giungere in Italia. E invece di essere accolti come eroi saranno riconosciuti dal nostro Stato come "profughi". Paradossalmente ad essere considerasti italiani o italianesi in Albania e albanesi in Italia. « Perché l'Italia è un posto bellissimo?» – chiedeva Tonino a suo padre - e la risposta era: «Perché in Italia siamo tutti pittori, musicisti e cantanti». Uno spettacolo di 75 minuti, con musiche dal vivo di Roberto Cherillo, da non perdere, in scena alla Sala Laudamo sino ad oggi pomeriggio e saluto alla fine da calorosissimi applausi.
Gigi Giacobbe