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MUSICA DIPINTA TRA LE CENERI DEL CINQUCENTO. -di Errico Centofanti

La Cetera, la Ghironda e la Zampogna. La Cetera, la Ghironda e la Zampogna.

Musica Dipinta tra le ceneri del Cinquecento
di Errico Centofanti

«Dopo aver sistemato pubblico, orchestra e cantanti a una distanza di sicurezza, avrei fatto saltare in aria l'edificio prima dell'ultimo atto del wagneriano "Crepuscolo degli dei", dove le fiamme divorano il Walhalla decretando la fine di ogni olimpo. Una volta scesa la cortina di polvere, gli interpreti avrebbero rappresentato il finale sopra le rovine». Era l'11 Gennaio 2009, quando, sul quotidiano la Repubblica, Werner Herzog, autore di memorabili films come Aguirre furore di Dio, Fitzcarraldo e il recentissimo Queen of the desert, lanciava questa esplosiva dichiarazione in un'intervista rilasciata a Leonetta Bentivoglio.
Quello stesso giorno, a Sciacca, dove la mitologia colloca l'atterraggio di Dedalo in fuga dal labirinto cretese, a due passi dalla spiaggia che fronteggia Pantelleria e, piú in là, la Tunisia, battevano giusto trent'anni dall'apertura del cantiere che ha innalzato un grandioso abbandonato muto spettrale scheletro di cemento armato, probabilmente destinato a fine-completamento-mai e a una lenta dissoluzione. È tutto quel che c'era, lí, in quell'inizio d'anno del 2009: lo scheletro di un sogno, il sogno del grandioso Teatro Popolare disegnato dall'architetto Giuseppe Samonà.
Herzog parlava proprio di quello scheletro: «Ma il cemento con cui è fatto il teatro è cosí solido, pesante e abbondante che ci vorrebbe una quantità mostruosa di dinamite per buttarlo giú, e si distruggerebbe mezza città».
Per Herzog, persona troppo colta per ambire a un biglietto di sola andata verso un manicomio, lanciare quel progetto di distruzione-spettacolo equivaleva a niente piú d'una congettura simbolica.
Invece, di lí a nemmeno novanta giorni, un turbine di realtà lancia tutt'altro che le congetture simboliche di Herzog. È il 6 Aprile, sempre di quell'anno lí: il 2009. È Madre Natura in prima persona che concepisce e realizza un mastodontico progetto di distruzione-spettacolo: all'Aquila, fa saltare in aria non uno ma tutti i teatri, tutte le sale da concerto e la maggior parte di quello che è il piú vasto centro storico d'Europa sbriciolato da un terremoto dopo il caso di Lisbona del 1755.

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L'Aquila, Palazzo Carli in Via Accursio: il cortile (sec.XV).

La rinascita dalle ceneri
Trascorsi dieci anni, dell'urbs, cioè della città fatta di pietre squadrate e ben commesse, molto è risorto. Quanto alla civitas, la città fatta d'una comunità di esseri umani, molto è perduto. Ma, non tutto. I travolti dalle macerie e quanti hanno scelto d'emigrare sono per sempre perduti. I rimasti sono tanti, però non piú una comunità: scissi nei vari elementi che la componevano e abitativamente sparpagliati, sono monadi o minuscoli aggruppamenti dallo smarrito o assai labile idem sentire.
Adesso, ogni tanto, tra le devastazioni sismiche, qualcosa rinasce dalle ceneri di secoli: piccoli, imprevedibili e insperati risarcimenti delle tante e irreparabili perdite. Ogni tanto, càpita qualcosa che può aiutare a riannodare quei legamenti con il condiviso passato attraverso i quali sarà possibile ricucire ragioni e modalità del relazionarsi in termini di restaurata comunità. La storia di uno assai speciale di quei qualcosa comincia con un messaggio che, tramite MMS, viaggia nell'etere dall'Aquila a Boston, anche se in realtà si tratta d'una storia iniziata in un tempo ben piú lontano: quando gli europei avevano appena assimilato le prime vaghe notizie circa l'esistere di un inimmaginato continente destinato a chiamarsi America.
Correvano in quel tempo lontano gli ultimi anni del secolo XV. Milioni di pecore sui pascoli d'altura del Gran Sasso d'Italia e milioni di grammi di zafferano cavati dagli orti intra e extra moenia alimentavano da secoli i traffici con il Nord italiano e europeo facendo la prosperità e la potenza dell'Aquila, la maggior città settentrionale del Regno di Napoli, nella quale vigeva un regime comunale fieramente autonomo, benedetto dal necessitato benvolere della lontana cattedra vicereale napoletana e dell'ancor piú distante trono imperiale di Spagna. Tra le famiglie piú in vista c'era quella dei Carli, armentari e mercanti tra i maggiori, la cui accumulazione di ricchezza ne aveva favorito l'accesso al patriziato e a preminenti posizioni nel governo cittadino, stimolandone inoltre la coltivazione dell'intelletto e del ben vivere: tutti fattori che avevano patrocinato, tra l'altro, la chiamata intorno a sé di prestigiosi artisti e l'edificazione di magnifiche residenze palazziali.
Quel messaggio transoceanico via MMS riguarda proprio il piú antico tra i palazzi dei Carli, che sta alle spalle di Santa Maria di Paganica, una delle principali tra le dozzine di chiese della città.
In quel palazzo si lavorava al consolidamento e restauro post-terremoto. Si trattava di raggiungere la massima approssimazione possibile rispetto all'antico fulgore della dimora addensata intorno allo splendido cortile porticato di fine Quattrocento dovuto alla genialità di Silvestro Aquilano, che a Firenze aveva raffinato il suo talento di scultore e architetto frequentando gli ambienti di Donatello e Rossellino.

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Il momento della scoperta della Musica Dipinta in Palazzo Carli

Tracce di immagini
Uno dopo l'altro, si smontano i pavimenti per ispezionare e irrobustire i sottostanti solai. Nel saggiare le condizioni di uno di questi, l'architetto Carla Bartolomucci, che ha curato il progetto d'intervento e tiene le redini dei lavori, scopre un vuoto dall'insolita profondità d'una buona metrata tra il solaio e l'estradosso delle sottostanti voltine riferibili a ambienti del piano di sotto. Per di piú, nota tracce di immagini dipinte lungo tutte e quattro le pareti che racchiudono il sorprendente spazio rinvenuto.
L'architetto Bartolomucci fa smontare l'intero solaio, fa rimuovere gli strati di polvere e ragnatele accumulatisi in centinaia d'anni e poi la leggera scialbatura a calce sovrapposta qui e là alla superficie dipinta. Quel che appare non sembra cosa da poco: si tratta di quasi venti metri quadrati interamente rivestiti con affreschi di soggetto musicale. Prima ancora di avviare un accurato restauro, l'architetto vuole che un esperto di conclamata autorevolezza avvalori la sua intuizione del trovarsi davanti un ritrovamento di rilevante entità storica, oltre che artistica. Cosí, decide di chiedere un parere al musicologo Francesco Zimei: gli manda una richiesta telefonica con allegate le fotografie di qualche porzione degli affreschi.
È quello il messaggio via MMS che viene visualizzato a Boston, dove il professor Zimei ha un impegno di studio. Immediato il riscontro, con una telefonata confermativa dell'eccezionale rilevanza del ritrovamento. Non appena può, il professor Zimei si precipita per effettuare un sopraluogo, fa fotografare l'intera superficie affrescata e avvia un meticoloso studio intorno all'intera questione.

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I Carli
Ma, com'è che tutta quella Musica Dipinta stava segregata tra il pavimento d'una stanza e le volte di due piú piccoli ambienti sottostanti?
Giacomo Carli, che nella prima metà degli anni Ottanta del Quattrocento aveva fittamente lasciato annotare i libri mastri fiorentini grazie al suo va-e-vieni per vender lana e comprar tessuti, si diede a coltivare l'ambizione di dotarsi d'una residenza confacente al primario status raggiunto nell'ambito della comunità. Fece dunque ristrutturare e magnificare il complesso immobiliare acquisito sul colle piú alto della città e ivi s'installò nel 1494 con famiglia, servitú e largo seguito di arredi preziosi.
Il figlio di Giacomo, Alessandro, che già aveva respirato al seguito del padre l'esaltante atmosfera della Firenze capitale europea del Rinascimento, venne avviato ai piú raffinati studi umanistici dell'epoca. Tutta la sua vita si snodò attraverso una stagione impareggiabile, segnata dal magistero politico-culturale di Lorenzo il Magnifico e dei Papi Giulio II, Leone X, Clemente VII. Visse negli stessi anni di Machiavelli, Guicciardini, Ariosto e Raffaello, mentre Bramante metteva mano alla sua reinvenzione di San Pietro, Leonardo creava l'Ultima Cena, Michelangelo estraeva dal marmo la Pietà e sciorinava le magie impresse sulla volta della Cappella Sistina. Anni, quelli, pure di rivolgimenti epocali: le caravelle di Colombo che rivelano al mondo l'esistenza del continente americano, le Novantacinque Tesi di Lutero che avviano la Riforma Protestante.
Echi e sollecitazioni di tutto ciò e quant'altro s'intrecciavano nella quotidianità dell'Aquila, per il suo essere un fervente centro di mercatura d'ampio respiro, dove del resto la stessa città forniva stimoli all'intelligenza e alla fantasia di Alessandro: vi fiorivano eccellenti pittori intorno a Saturnino Gatti, Francesco da Montereale e Pompeo Cesura; Silvestro Aquilano stupiva con le sue sculture e le architetture; i fabbricanti di pergamene e delle celebratissime corde da liuto esportavano ovunque; lo stampatore-editore Adamo da Rottweil vi apriva la terza tipografia d'Italia; argentieri e cartiere producevano a tutto spiano; Cola d'Amatrice innalzava il prim'ordine della trionfale facciata pensata per la basilica eletta a ricovero delle spoglie di San Bernardino da Siena; Jacopo Alferi se n'andava a Milano a fare il segretario del duca Galeazzo Maria Sforza; Marco dall'Aquila con i virtuosismi del suo liuto e Serafino Ciminelli con le sue vertiginose versificazioni viaggiavano per incantare le corti di mezza Italia; Giovanni Battista Branconio veniva chiamato da Leone X a guidare gli orafi papali e, diventato sodale di Raffaello, che poi lo avrebbe nominato suo esecutore testamentario, si faceva dipingere nel 1519 la Visitazione per la cappella di famiglia in San Silvestro.

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Uno dei due "libri di musica"

Gli studioli
Insomma, si può capire perché Alessandro a un certo punto volesse creare in palazzo Carli una raffinatezza tutta sua, degna del sapere e della bellezza a lui ormai consustanziali. Sapeva dello squisito studiolo inventato a Urbino negli anni Settanta del Quattrocento da Federico da Montefeltro, poi preso a modello dal figlio Guidubaldo a Gubbio e da Isabella d'Este a Mantova: anche lui volle per sé qualcosa di simile. Scelse un ambiente dalle dimensioni grosso modo analoghe allo Studiolo di Urbino, però a pianta perfettamente rettangolare, ubicato a piano terra ma dall'affaccio in cima alla scarpata retrostante, il che gli garantiva l'inebriante veduta delle spettacolari cime del Gran Sasso svettanti sopra i verdi pascoli abitati dalle migliaia di pecore di casa Carli. E sulla sommità di quel rettangolo da 6,20 x 2,90 - altezza 4,50 - volle dipinto il suo sogno musicale a occhi aperti. Ma, mutano i tempi e le cose...
Tra metà Seicento e giusti tre mesi prima del rovinoso terremoto d'inizio Febbraio del 1703, le monache celestine di Santa Maria delle Raccomandate comprano in lotti successivi l'intero palazzo, lo collegano al monastero adiacente e vi realizzano diverse trasformazioni, ivi compresa una riguardante lo Studiolo, il quale, mediante un tramezzo, viene diviso in due ambienti, entrambi ribassati d'altezza e controsoffittati con due voltine a padiglione. Al di sopra di quelle voltine e sotto il pavimento del piano superiore resta un vuoto d'altezza intorno a un metro: è quello dalle pareti rivestite con la Musica Dipinta, che le monache, probabilmente disgustate dalle immagini profane, avevano già fatto patinare con qualche spilorcia pennellata di calce.
Dopo la confisca statale comportata nel 1807 dalla soppressione degli ordini monastici, l'antico monastero delle Raccomandate perviene al Comune, che piú avanti, per un centinaio d'anni, vi trasferirà la sede municipale. Il palazzo appartenuto ai Carli, invece, viene ceduto al ricco commerciante Antonio Benedetti: è allora che per l'illustre residenza rinascimentale si sviluppa la dissennata trasformazione in condominio, con conseguenti variegati rimaneggiamenti e, ogni tanto, restauri, spesso maldestri, susseguitisi fino a poco prima del sisma del 2009. In quella notte di bulimia performativa, Madre Natura brutalizza, sfascia, atterra, polverizza a destra e a manca, ma appresta pure le condizioni affinché tesori dimenticati possano venir riscoperti, come accade per la Musica Dipinta di Alessandro Carli.

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L'Arpa e il Buttafuoco

La Wunderkammer di Alessandro
E allora eccola fluire, lungo la riscoperta parte sommitale di tutt'e quattro le pareti, la Musica Dipinta, salvata e curata amorevolmente, come l'intero palazzo che gli sta intorno, dall'arch. Bartolomucci e da quanti sotto la sua guida si sono adoperati. Se, come Francis Picabia titolava un rutilante quadro del 1915, «La peinture est comme la musique», qui la musica diventa immagine e l'immagine si fa musica.
Tutto l'apparato decorativo è percorso da festoni, d'alloro e melagrane, intrecciati con le raffigurazioni di ventisei strumenti musicali, due libri di musica, aquile evocanti lo stemma civico e pavoni, che alludono all'insegna araldica della casata.
Gli strumenti musicali non vengono proposti ammonticchiati ai piedi della santa, come nell'Estasi di Santa Cecilia (ora nella Pinacoteca Nazionale di Bologna) dipinta da Raffaello in quel medesimo torno di tempo, né tanto meno disseminati alla rinfusa nell'affollatissima tavola Il senso dell'udito (ora al Prado di Madrid) che Jan Bruegel il Vecchio creerà nel secondo decennio del Seicento. Appaiono invece disposti linearmente, ognuno accanto all'altro, lungo l'intero perimetro, quasi alludenti all'ordinata disposizione della collezione di strumenti in carne e ossa presumibilmente accolta nelle vetrine allestite al di sotto del fastigio affrescato.
È infatti da supporre come proprio questa potesse essere la vera destinazione di quell'ambiente voluto da Alessandro Carli. Lui, infatti, piú che un gabinetto di riflessione analogo allo Studiolo di Urbino, avrà voluto creare una sorta di Wunderkammer, come allora andava di moda tra gli umanisti e la nobiltà acculturata, tutti attratti dal collezionismo colto (e non di rado stravagante) all'insegna del "non si sa senza possedere": una Camera delle Meraviglie che, nel caso di Alessandro Carli, non poteva non venir dedicata alla sua evidente predilezione per la musica.

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Il Tamburello, la Ribeca e i Cornetti, inframezzati dai pavoni, simbolo araldico della casata Carli

La Musica Dipinta
Nella parete principale, la Nord-Est, che al di sotto della controsoffittatura seicentesca conserva la finestra dalla quale Alessandro poteva volgere lo sguardo ammaliato verso le altitudini del Gran sasso, campeggiano, alle due estremità, i libri di musica e, al centro, un'aquila ad ali spiegate e un'altra in fase di volo, fiancheggianti una ghirlanda che nella dilavata cromia centrale probabilmente avrà accolto lo stemma dei Carli.
Procedendo in senso orario, ecco scorrere la processione degli strumenti musicali, tutti dipinti con la brillante accuratezza quasi fotografica che li costituisce a schede d'un eccezionale quanto prezioso catalogo illustrato dello strumentario in uso presso i musici tra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento, come il professor Zimei documenta inequivocabilmente.
Nella parete Sud-Est: un Liuto a sei cori, due Bombarde incrociate con due Trombe, tre Flauti a becco, una coppia di Fistulae, un Triangolo (il Liuto è uno strumento a corde pizzicate, dalla cassa di risonanza a forma di pera e dal lungo manico con il cavigliere ripiegato a angolo retto; la Bombarda è uno strumento a fiato in legno, ad ancia doppia, tipicamente rinascimentale, progenitore dell'oboe moderno; la Fistola è una sorta di flauto di Pan, composto da diverse canne legate insieme).
Nella parete Sud-Ovest, che fronteggia la principale: un'Arpa, un Buttafuoco, una Cetera appoggiata trasversalmente a una Ghironda, una Zampogna del tipo "a paro" (il Buttafuoco è un fantasioso strumento rinascimentale fatto di un salterio a bacchette, da tenersi a tracolla, e di un flauto, entrambi e simultaneamente usati dal medesimo strumentista; la Cetera, affine al liuto ma considerato meno nobile, ha anch'essa corde che si fanno vibrare a pizzico; pure la Ghironda è uno strumento a corde, ma queste sono messe in vibrazione da una ruota, allocata dentro la cassa armonica, che viene azionata da una manovella).
Infine, nella parete Nord-Ovest: una Tromba dritta, una Ribeca accostata a un Tamburello, tre Cornetti, tre Cromorni, una Lira da braccio con il suo arco (la Ribeca, di derivazione araba, fu lo strumento a corde connaturato ai trovatori medioevali; il Cromorno è uno strumento a fiato dalla forma ricurva ad ancia doppia, tipicamente rinascimentale).

L'Araba Fenice
L'accuratezza fotografica dispiegata nel dipingere gli strumenti diventa virtuosismo da miniaturisti quanto ai due libri di musica presenti sulla parete principale. Infatti, la notazione musicale appare non solo nitida ma rigorosamente fedele al testo originale del brano che Alessandro Carli volle riprodotto. Valutazione, quest'ultima, che sarebbe impossibile riferire senza la scoperta dovuta al funambolico sapere del prof. Zimei, il quale ha potuto identificare come il testo musicale sia quello stampato a Roma nel 1518 della frottola Animoso mio desire dovuta a Bartolomeo Tromboncino. Questi, veronese (1470-1535), nonostante la macchia d'aver assassinato la moglie adultera, come di lí a poco sarebbe toccato anche all'insigne madrigalista Gesualdo da Venosa, fu celebratissimo compositore di frottole - forma genitrice del madrigale - fu attivo nelle grandi corti dell'Italia del Nord, tra le quali quelle di Lucrezia Borgia, Francesco II Gonzaga e Isabella d'Este, e poté avvalersi di illustri testi letterari, di Petrarca, Michelangelo e altri grandi dell'epoca.
La deliziosa frottola di Tromboncino venne scelta dal committente probabilmente perché nelle sue rime, non riprodotte nell'affresco, è innervato un esplicito richiamo all'aquila, unico essere vivente che può «mirar fiso nel sole», fonte del nome e dell'insegna dell'amatissima patria di Alessandro Carli. E d'aquila ha le sembianze la mitica Araba Fenice che rinasce dalle proprie ceneri, oggi immagine dell'avvenuta rinascita dalla sepoltura tra le ceneri del Cinquecento della Musica Dipinta di Alessandro Carli e auspicio per la definitiva rinascita della città incenerita dalla distruzione-spettacolo del 6 Aprile 2009.
(Le foto degli strumenti presenti nel ciclo pittorico della Wunderkammer di Alessandro Carli sono di Gino Di Paolo, estratte, come tutte le altre, da: Carla Bartolomucci, Terremoti e resilienza nell'architettura aquilana, Edizioni Quasar, Roma 2018).

Letto 2136 volte Ultima modifica il Venerdì, 30 Novembre 2018 10:24

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