Come rovinarsi la vita non dando retta a Casanova
di Errico Centofanti
«Da Ponte mio, se volete far fortuna, non andate a Parigi, andate a Londra; ma, quando vi siete, non entrate mai nel Caffè degli Italiani, e non scrivete mai il vostro nome». Solo tre banali "non"? Sarebbero questi i consigli con cui l'irrequieto genio di Giacomo Casanova avrebbe potuto sottrarre alla rovina l'altrettanto irrequieto genio di Lorenzo Da Ponte? Cerchiamo di capire.
La neve túrbina copiosa e il freddo gela il respiro. Meno male che nel palazzo di famiglia, districandosi tra minuetti e barcarole, ha potuto fare buona provvista di pellicce e coperte. I quasi settanta kilometri da Venezia sono trascorsi di gran volata, ma adesso la pianura è finita e l'immensa muraglia delle Alpi manda a dire che lí si fa musica di tutt'altro genere. Compiuti da poco quarantaquattro anni e fresco di consacrazione episcopale, monsignor Lorenzo Da Ponte s'è messo in testa che deve prender possesso della Diocesi di Céneda in tempo per presiedere egli stesso tutti i riti del tempo di Natale.
Quella nevicata non è niente di grave: il castello di San Martino, che è la sede episcopale, si staglia ormai a poche centinaia di metri. Monsignor Da Ponte vi risiederà per ventott'anni, giusto fino al sopraggiungere di apposito decreto di Sorella Morte. Con lui, s'estinguerà il potere temporale attribuito ai vescovi di Céneda nel secolo X dall'Imperatore Ottone, perché la Repubblica di Venezia aspetta che egli spiri per assumere direttamente con i suoi podestà il controllo del territorio.
Fin qui, è tutto quel che c'è da dire su monsignor Lorenzo Da Ponte, Vescovo-Conte di Céneda dal Natale del 1739 al 9 Luglio del 1768: un po' poco, in verità, per assicurargli un ruolo distinto tra le vicende dell'umanità. Eppure, considerato che di lui ancora si parla a distanza d'un quarto di millennio, un posticino nella storia monsignor Da Ponte se lo è guadagnato, sia pure in virtú d'interposta persona.
Ritratto di Lorenzo Da Ponte quarantenne, risalente al penultimo decennio del Settecento, epoca di creazione dei libretti per la grande trilogia operistica di Mozart (autore ignoto).
Il fatto è che la pia e tuttavia banale esistenza di monsignor Lorenzo Da Ponte attraversa pure la giornata del 29 Giugno 1763. Quel giorno lí, è a lui che tocca d'impartire il battesimo a una famiglia ebrea di Céneda. Il capo-famiglia, vedovo ormai da tant'anni, aspira alla felicità d'un nuovo matrimonio, ma la giovane promessa è cattolica, il che vuol dire rinunciare alla fede in cui lui è cresciuto e andare a farsi battezzare insieme con tutta la figliolanza. Secondo l'uso corrente, uno dei figli deve assumere nome e cognome del battezzante: tocca a quello nato quattordici anni prima e registrato come Emmanuel Conegliano. È un nuovo nascere: comincia una nuova vita, quel giorno, per quel secondo Lorenzo Da Ponte, che ai pochi anni già consumati ne aggiungerà altri settantacinque, destinati a sciogliersi per sempre, alla fine d'ingarbugliate avventure, sublimi meraviglie e faticose tristezze, a piú di seimila kilometri da Céneda, dentro una torrida estate di New York.
Nel tempo nostro di quel secondo Lorenzo Da Ponte, grazie alle opere che s'è lasciato alle spalle, molto si sa, mentre invece quanto a Céneda il buio s'ispessisce. Per dipanare il mistero, ci vuol poco: svanita l'importanza detenuta in secoli lontani, Céneda e l'adiacente Serravalle vengono accorpate dai burocrati del Regno d'Italia sotto le insegne del nuovo Comune di Vittorio Veneto, tuttora ben piantato a metà strada tra Venezia e Cortina d'Ampezzo.
Bene, il gioco è fatto: galeotto fu il nome: con un sol colpo di dadi, un oscuro prelato veneziano e un oscuro ragazzetto della marca trevigiana vengono proiettati verso l'immortalità. O, meglio, l'immortalità il ragazzetto se la meriterà gloriosamente, in ragione del talento donatogli da Madre Natura e da lui magnificamente valorizzato, mentre l'immortalità del prelato è solo una pallida ombra di quella del ragazzetto.
Ritratto di Lorenzo Da Ponte ottantenne, eseguito a New York sul finire degli anni Venti dell'Ottocento (autore ignoto).
Il trionfo delle Nozze
«Non piú andrai, farfallone amoroso, / notte e giorno d'intorno girando, / delle belle turbando il riposo, / Narcisetto, Adoncino d'amor».
Il suono di quei versi, Lorenzo, se lo va solo immaginando, tutto dentro la sua testa, quasi parendogli come se nell'alitare di questa ventosa sera del Maggio 1805 stia vaporando dalle profondità dell'oceano l'eco di un'altra sera, della sera di un altro Maggio, di quando, a Vienna, quei versi li aveva sentiti cantare in pubblico per la prima volta. Era stato il primo giorno di Maggio del 1786. E i versi erano quelli pensati da lui e messi in musica da Amadeus.
Qualcuno aveva intuito, ben a ragione, che la grazia della perfetta eleganza sarebbe stata l'inconfondibile impronta della sua vita nascente. Cosí, ben presto, l'algida marmoreità greca del battesimale Teofilo s'era disciolta nella siderea soavità latina del conversativo Amadeus. Il significato del nome non veniva mutato, ma il suono era diventata tutt'altra cosa, come tutt'altra cosa è la musica che Amadeus ha distillato dai versi di Lorenzo. Quella musica nessuno prima e nessuno mai piú ha saputo intuire nella compiutezza del pensiero, del movimento e del colore con cui Lorenzo le parole le ha scelte e le ha articolate. Pietro Benucci (ah, quale vertiginoso Figaro fu il suo!), nemmeno aveva finito di cantarlo, il gran finale del prim'atto delle Nozze di Figaro, che l'entusiasmo traboccante del pubblico non lo si poté ammansire se non immediatamente replicando tutta intera quell'aria. La voce di Benucci scivolava limpida e leggera sullo sfavillante tappeto in Allegro Vivace che violini, viole, violoncelli e bassi, le coppie di flauti, oboi e fagotti, le coppie di corni e trombe in Do e i timpani in Do Sol intessevano sotto la volta sbalordita del Burgtheater. A Vienna, dopo quella sera, non v'è stato mai piú un trionfo come quello!
Ritratto postumo di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), dipinto nel 1819 da Barbara Krafft.
Sulle onde dell'oceano
Questa, invece, è la sera del 26 Maggio del 1805. Sull'Oceano Atlantico infuria un vento gelato che contraddice il canone della stagione primaverile. Il vascello del capitano Hyden sta navigando dall'Inghilterra a Filadelfia, dove Lorenzo è atteso dalla moglie Nancy e dai quattro figli che nell'autunno precedente v'erano stati chiamati della suocera. Non è ancora New York, dove metterà piede il giorno successivo allo sbarco, ma Filadelfia è già parte di quella "terra promessa" in cui Lorenzo spera d'incontrare veramente la felicità. Abbarbicato alla murata, fissa immobile e assorto l'orizzonte, dove il sole si va stemperando come un'immensa lanterna fiammeggiante inghiottita dall'oblio.
A Vienna, quella sera di vent'anni prima, erano giovani e densi di futuro: Lorenzo trentasette e Amadeus appena trent'anni. Con le Nozze di Figaro avevano visto giusto: il vecchio mondo non poteva reggere piú. Tre anni dopo, il 14 Luglio, la presa della Bastiglia avrebbe avvivato la luce che da tanto tempo andavano sognando. Eppure, quale silenzio e smarrimento, adesso! Le loro melodie tutti le avevano cantate, per anni, nelle strade di Vienna, di Praga e di Bologna. Ma, adesso, le hanno dimenticate o, forse, soltanto messe da parte per un po'. Amadeus se n'è andato ormai da quattordici anni e Lorenzo ha raggiunto i suoi cinquantasei. Non sa quel che ancora gli riuscirà di fare, Lorenzo, quanto tempo ancora gli resta da vivere, ma una cosa con certezza la conosce: sa della sua vita eterna, che è l'indistruttibile vita delle opere scritte insieme con Amadeus, perché quella musica, e tutto quel che le sta intorno, è un incorruttibile dono dell'eternità a questo nostro mondo di angustie quotidiane.
Da quasi due mesi scruta le onde, Lorenzo. Invano, cerca un segno che gli annunci la conclusione di questo viaggio «lungo, disastroso e pieno di fastidi e d'affanno». Lui non può saperlo, ma all'approdo di Filadelfia mancano ancora nove giorni. Né può sapere che, proprio mentre gli frullano per la mente i versi inventati per Figaro, a Milano si va festeggiando con solenne magnificenza la conclusione di quello stesso 26 di Maggio che ha visto le tempie di Napoleone Bonaparte, da pochi mesi Imperatore dei Francesi, circonfuse dalla tangibile rivelazione dell'aggiuntiva dignità di Re d'Italia proclamata dalla Corona Ferrea di Berengario. Lorenzo, invece, la sua piú modesta e personale rivelazione tangibile se l'aspetta dall'America: si tratta della felicità. La felicità che in Europa gli è sempre sfuggita, sebbene egli abbia tanto sperato d'afferrarla stabilmente, mentre dall'altro lato del Mare Oceano la felicità a ognuno spetta di cercarla per obbligo di legge.
L'interno della neo-gotica Basilica of St. Patrick's Old Cathedral di Mulberry Street a Manhattan, sede episcopale di New York fino al 1879 (anno di consacrazione della nuova Metropolitan Cathedral of St. Patrick nella 5th Avenue), dove si svolse il funerale di Lorenzo Da Ponte nell'Agosto del 1838.
La Ricerca della Felicità
Lorenzo tiene sempre in mente quel gran mito dell'Illuminismo che è stata la Ricerca della Felicità, tema di cui tante volte si son trovati a ragionare, lui e Amadeus, mentre andavano dando vita alla prima delle loro formidabili macchine teatrali, tanto da aver fatto proprio della Ricerca della Felicità il meccanismo propulsore delle Nozze. Lorenzo l'aveva poi scoperta santificata, quella mitica aspirazione universale, in una folgorante affermazione della Dichiarazione d'Indipendenza del 4 Luglio 1776: «Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la Ricerca della Felicità». Andarsene nel Paese dove la Ricerca della Felicità, essendo eretta a principio giuridico, costituisce un valore etico e un obbligo morale, era cosí diventato un bisogno irrefrenabile, oltre che un'impellente necessità stimolata dagli assalti di creditori e invidiosi.
La prima delle sue imprese piú notevoli, quella che gli assicurerà un posto imperdibile nella Storia, cioè la creazione dei libretti per Mozart, ce l'ha alle spalle, ma lui immagina d'avere ancora altre grandi cose da fare.
Lorenzo è uno tra i primi di quella che sarà la fiumana dell'immigrazione italiana nella nuova "terra promessa". Purtroppo, è uno dei poco amati dalla Fortuna: verso di lui, la bella signora bendata è alquanto distratta, come lo sarà verso Antonio Meucci e verso tanti altri, in America e non solo.
Non basta essere un genio. Lorenzo s'inventerà di tutto per campare e gli unici segni durevoli all'altezza dei suoi meriti e delle sue potenzialità che gli riesce di concretizzare sul suolo americano consistono nel fondare il gusto per l'opera lirica e nell'inaugurare l'insegnamento della lingua italiana: due imprese insigni che, però, come egli stesso, con involontaria predizione, aveva affidato alle labbra di Figaro, a lui fruttano «molto onor, poco contante / ed invece del fandango, / una marcia per il fango».
Del resto, ai rovesci di fortuna e al sopravvivergli Lorenzo s'era allenato fin da ragazzo: deprivato degli amatissimi studi in seguito allo sfacelo dell'attività commerciale di famiglia, era riuscito a guadagnarsi l'accesso in seminario e infine a sistemarsi come professore di letteratura italiana e latina in un altro seminario, quello di Treviso.
Il Teatro Lorenzo Da Ponte di Vittorio Veneto (Comune nel quale è stata inglobata l'antica Céneda dove Da Ponte nacque), inaugurato nel 1879 e ristrutturato all'interno a fine Novecento.
La maledizione del "Vade!"
Fu il 1° Agosto del 1776: la Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America risaliva a meno d'un mese prima, ma Lorenzo, che aveva ventisett'anni, questo ancora non poteva saperlo e tanto meno poteva immaginare che da questa giornata sarebbe scaturito l'inizio d'una sua terza nuova vita. Lí per lí, tutto s'era svolto pianamente, anzi festosamente: secondo la prassi vigente, essendo quello l'ultimo giorno di scuola, gli era toccato di far recitare dai suoi alunni una silloge di poesie con un'introduzione da lui stesso composta.
Altro che questa ventosa sera sull'Oceano! A Treviso, l'aria era calda, immobile, afosa. L'uditorio di colleghi, autorità e parenti degli allievi era attento, plaudente, anche se alla lettura dell'introduzione di Lorenzo s'erano fatti notare molti tentennar di teste e qualche sproporzionato bisbigliare. L'argomento era d'una qualche dotta ma ben ragionata eleganza: «Se l'uomo procacciata si fosse la felicità unendosi in sistema sociale, o se piú felice potea riputarsi in istato semplice di natura». Esso, è vero, echeggiava temi cari agli Illuministi di Francia, ma sarebbe stato difficile prevedere che ignoranza e maligne interpretazioni l'avrebbero fatto parere scandaloso, imprudente e contrario all'ordine nonché alla pace sociale.
Sta di fatto che l'affare finí all'esame del Senato della Repubblica di Venezia e, di lí a qualche tempo, ne venne la sentenza: «Lorenzo Da Ponte di Céneda, d'ordine e decreto dell'eccellentissimo Senato, ti si commette di non esercitare mai piú in alcun collegio, seminario, università del serenissimo dominio veneto l'uffizio di professore, lettore, precettore, institutore, etc, etc. E ciò sotto pena dell'indegnazione sovrana. Vade». Già: "Vade!" E Lorenzo va. Peregrina tra Padova e Venezia, sopravvivendo con la fortuna al gioco e con incarichi da segretario e precettore, sempre battagliando tra le due forti passioni del gioco e dell'amore.
Avvenente della persona, al dire di tutti, accarezzato dai suoi protettori e amato dalle donne, è pieno di buone speranze, finché, nel 1779, uno scellerato l'accusa al Magistrato della Bestemmia d'aver mangiato prosciutto in un Venerdí e di non essere andato per varie Domeniche in chiesa. Ancora un altro "Vade!", questa volta con la condanna a quindici anni d'esilio dal territorio della Serenissima Repubblica. E Lorenzo va. Va a Gorizia e poi a Dresda, dove vive facendo versi. Poi, viene la primavera dell'anno di grazia 1781 e con essa la maledizione di quei "Vade!" pare finalmente trasformarsi nel viatico che indirizza il corso della vita di Lorenzo verso la felicità: la meravigliosa Vienna, in quel tempo vera capitale del mondo, gli apre le sue porte e il cuore.
La targa commemorativa eretta a Sunbury (Pennsylvania) nel 1994 in ricordo della vita trascorsa da Lorenzo Da Ponte nella cittadina statunitense dal 1811 al 1818.
Nella capitale imperiale
A Vienna, Lorenzo si tuffa nel vortice della vita intellettuale, entra nelle grazie dell'imperatore Giuseppe II, diventa poeta dei teatri di Stato, s'inebria di successi artistici e mondani ma pure soffre per raggiri, disinganni e asprezze dell'invidia e della slealtà. Conosce Mozart, ma l'avvio della loro amicizia è esitante. Amadeus, in una lettera al padre del 7 Maggio 1783, dice: «Abbiamo qui come poeta un certo abate Da Ponte. Attualmente costui ha un sacco da fare. Deve scrivere un libretto tutto nuovo per Salieri. Poi ha promesso di scriverne uno nuovo per me. Chissà se potrà – o vorrà – mantenere la sua parola!». Lorenzo, però, intuisce con quale eccezionale creatore è entrato in contatto, riconoscendo che Amadeus è «dotato di talenti superiori forse a quelli d'alcun altro compositore del mondo passato, presente o futuro». Cosí, finiranno con l'intendersi alla grande e, tra il 1786 e il 1790, condividendo una superlativa stagione creativa, inventano quei tre impareggiabili capolavori letterari, drammaturgici e musicali che sono Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Cosí fan tutte.
Poi, arriva il 1791, anno in cui tante cose d'intorno mutano sfavorevolmente. Le beghe dell'ambiente teatrale e il disfavore di Leopoldo II, che è subentrato sul trono a Giuseppe II, gli avvelenano le amicizie, gli fanno perdere gli incarichi a corte e finiscono con l'allontanarlo da Vienna, dove nel frattempo Mozart è morto. Sembrano tornare a echeggiare minacciosi i vecchi spettri del "Vade!". E Lorenzo va. Dopo alcuni mesi trascorsi a Trieste, nella speranza di recuperare il favore imperiale, decide di trasferirsi a Parigi, insieme con Nancy, la bella ragazza figlia di un mercante tedesco e d'una madre francese che gli rimarrà accanto devotamente per i successivi quarant'anni. L'itinerario lo conduce prima a Lubiana, poi a Praga, dove ai pochi soldi che porta con sé spera di aggiungerne altri recuperando la bella somma a suo tempo imprestata a Giacomo Casanova, «il quale dovevami alcune centinaia di fiorini».
Un'immagine dell'opera Le Nozze di Figaro di Mozart-DaPonte andata in scena al Teatro dell'Opera di Roma nel Gennaio 2006 con la regia di Franco Zeffirelli.
Il debito di Casanova
L'amicizia con Casanova era nata all'inizio del 1777, a Venezia, dove Giacomo era rientrato da un paio d'anni dopo i diciotto d'esilio comminatigli a seguito della rocambolesca fuga dalla carcerazione nei Piombi. Lorenzo, invece, a Venezia c'era arrivato subito dopo il 14 Dicembre del 1776, il fatidico giorno del "Vade!" pronunciato contro di lui per aver professato le medesime idee illuministe delle quali Casanova è l'alfiere negli ambienti aristocratici e intellettuali, dove brilla per il fulgore dell'intelligenza e la vastità del sapere.
Adesso, in questo uggioso Settembre praghese del 1792, Giacomo appare stanco e svogliato, oppresso dal presagio della fine imminente, che arriverà tra sei anni. Le sue sessantasette primavere gli pesano tutte, al contrario di Lorenzo, spavaldo e voglioso di fare, che ai quarantatre anni finora vissuti avrà da aggiungerne altri quarantasei. Tuttavia, negli occhi di Giacomo brilla tuttora la fiamma vitale che non lo ha mai abbandonato e che adesso è illuminata pure da una ben maturata saggezza.
Lorenzo parla del viaggio verso Parigi e in Giacomo s'accendono i ricordi d'un suo antico ritorno dalla capitale di Francia: quella volta che aveva fatto tappa a Ginevra e s'era trovato costretto a declinare un invito per ricevere il quale tanti altri avrebbero smosso le montagne. Voltaire, che aveva appena preso dimora lí vicino, a Ferney, voleva rivederlo e da piú amici gli faceva arrivare le sue sollecitazioni, ma Giacomo, per quanto pure lui desideroso d'incontrare di nuovo Voltaire, non poteva slacciarsi dalle giornate addensate intorno a un corteggiamento tra i piú memorabili, nel quale appariva alquanto nebulosa la frontiera tra chi corteggia e chi viene corteggiato. Correva l'anno 1759: Lorenzo era allora un bambino, mentre Giacomo aveva giusto la metà degli anni d'adesso: giovane e vigoroso qual era poté condurre trionfalmente la stupefacente impresa di render donne nella medesima notte due avvenenti quanto coltissime ragazze, tutt'e due gioiosamente e simultaneamente rifugiatesi con lui tra le medesime lenzuola.
Con l'obiettivo di recuperare il vecchio credito, Lorenzo raggiunge il castello di Duchcov, a due passi da Praga, dove Giacomo ha trovato il suo ultimo rifugio in veste di bibliotecario del conte Joseph Karl Emanuel von Waldstein, fratello di quel Ferdinand Ernst amico e patrono di Beethoven, che nel 1804 otterrà di vedersi dedicare la Waldstein, cioè quella Sonata per pianoforte op. 53 la cui luminosa serenità offre uno dei superlativi conforti all'umana avventura. Lí a Duchcov, Giacomo è impegnato nella lussureggiante scrittura della Histoire de ma vie, opera nella quale, ovviamente, espone anche, con iperuranico erotismo e soave eleganza, il racconto delle "giornate" di Ginevra.
Un'immagine dell'allestimento del Don Giovanni di Mozart-DaPonte per la stagione 2018-19 della Staatsoper di Vienna.
I consigli di Casanova
La visita di Lorenzo, però, non procede secondo il corso sperato. Infatti, «accorgendomi che la sua borsa era piú smunta della mia, non volli dargli la mortificazione di chiedergli quello che non avrebbe potuto darmi». Cosí, dice addio alla prospettiva del rimborso e decide di proseguire per Dresda. Giacomo insiste per accompagnarlo fino a Toeplitz. Il viaggio si rivela avventuroso e alla fine Lorenzo dovrà dimagrire la propria borsa d'altri due zecchini, sentendosi dire: «questi serviranno per farmi tornare a casa; e, come io non potrò mai restituirvi né questi né gli altri di cui vi sono debitore, cosí vi darò tre ricordi, che varranno assai piú che tutti i tesori di questo mondo. Da Ponte mio, se volete far fortuna, non andate a Parigi, andate a Londra; ma, quando vi siete, non entrate mai nel Caffè degli Italiani, e non scrivete mai il vostro nome».
Una volta a Dresda, Lorenzo, apprendendo che il 10 Agosto di quello stesso 1792 era stata arrestata la regina Maria Antonietta, capisce che Parigi è sconvolta dagli eventi della Rivoluzione e allora decide di seguire il primo consiglio di Casanova: prende la strada verso l'Olanda con l'obiettivo di raggiungere Londra, dove arriva a fine Ottobre. Ci resterà per poco piú di dodici anni, con alterna fortuna: sarà ancora librettista di gran successo e direttore di teatro, s'inventerà libraio dando straordinaria diffusione alla conoscenza della letteratura italiana. Infine, nelle sue Memorie, riferendosi a Casanova, dovrà confessare «felice me se avessi seguito religiosamente il suo consiglio!», perché nel Caffè degli Italiani era entrato in amicizia con uno stuolo di personaggi senza scrupoli i quali lo avevano trascinano in affari per lui rovinosi, facendogli scoprire l'amaro retroscena di quel «non scrivete mai il vostro nome», che stava a significare di non firmare mai cambiali. Il suo entusiasmo abilmente raggirato lo aveva portato a non poter contrastare l'assedio dei creditori nonché a dover scansare l'incombente minaccia della carcerazione. Cosí, ancora una volta s'era trovato davanti lo spettro dei "Vade!". E Lorenzo andò, sfuggendo ai nuovi guai con il riparare precipitosamente al di là dell'Oceano Atlantico, presso i parenti di Nancy.
Manifesto per il Cosí fan tutte di Mozart-DaPonte che il 26 Gennaio 1998 inaugurò la nuova grande sede del Piccolo Teatro di Milano, poi intitolata a Giorgio Strehler. Si trattava dell'ultima regia di Strehler, morto un mese prima, completata da Carlo Battiston secondo le indicazioni del Maestro.
In America
Nella lontana America, Lorenzo trascorrerà i suoi ultimi trentaquattro anni, tra Filadelfia, Elizabethtown, Sunbury e sopra tutto New York, reiteratamente bersagliato dai fantasmi del "Vade!". Quella non era ancora una terra propizia per gli intellettuali, tanto piú se freschi d'immigrazione. Lí, per altro, la ferocia degli affaristi lo avrebbe perseguitato fino alla fine dei suoi giorni, stroncandone tutti i tentativi d'impegnarsi nell'industria e nel commercio per affiancare con intraprese remunerative la sua indomita dedizione a promuovere la letteratura italiana e l'opera lirica.
Già dopo appena un lustro di permanenza in quella che aveva immaginato come la "terra promessa" per la Ricerca della Felicità, a Lorenzo gli viene da scrivere che «vicino come sono al sessantesimo anno della mia vita, mi convien confessare che, se non sono stato sempre felice, non posso dire nemmeno di essere sempre stato infelice». In effetti, grazie al sostegno di qualche personalità illuminata, a Lorenzo riuscirà, comunque, di costruire per New York il primo teatro d'opera, d'inaugurare l'afflusso dall'Europa di primarie compagnie di canto e, infine, di diventare il primo professore d'italiano in quella che oggi, insieme con Harvard, Yale, Princeton e altre quattro, compone l'elitario club delle piú autorevoli università degli States. È il Department of Italian della Columbia, infatti, che orgogliosamente proclama la propria «distinguished history initiated in 1825 by Lorenzo Da Ponte, celebrated librettist of Mozart's operas and first teacher of Italian at Columbia University». Per parte sua, la città di New York ha intitolato a Lorenzo una strada dalle parti di Church Street e Leonard, lí dove sorgeva il teatro d'opera da lui fondato, cioè a Manhattan, nel quartiere Tribeca reso famoso e alla moda grazie al festival cinematografico che vi ha impiantato Robert De Niro.
È vero che, per non essersi lasciato temperare dai consigli di Casanova, a Lorenzo l'inesauribile slancio verso creatività e generosità gli ha rovinato la vita, ma è pur vero che quella vita, assai tribolata quanto meravigliosa, ha saputo regalare a teatranti e letterati di tutto il mondo il privilegio di potersi riconoscere compagni d'un cosí superlativo spirito e agli italiani la fierezza d'esserne compatrioti.
L'ultimo "Vade!", quello che indirizza verso territori dai quali non v'è viaggiatore che possa tornare indietro, aveva raggiunto Lorenzo nel 1838, la sera del 17 Agosto. Poi, la Sorte, invidiosa per l'immortalità conquistata dall'uno e dall'altro grazie a quanto avevano creato, ha imposto a Lorenzo e Amadeus una nuova e definitiva forma di condivisione rendendo irreperibili i loro resti mortali.