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Martedì, 13 Febbraio 2018
Pubblicato in Interviste

Vittorio Biagi nasce a Viareggio (Lucca). Dapprima studia con Ugo Dell'Ara, nel 1958 entra al Teatro alla Scala di Milano, nel 1960 al Ballet du XXème siècle di Maurice Béjart. Negli anni 1967-68 è danseur étoile al Balletto dell'Opéra di Parigi. Dal 1969 al 1977 dirige il balletto dell'Opéra di Lione, nel 1977/1978 dirige l'Aterballetto, nel 1979 fonda la compagnia Danza Prospettiva, nel 1983/1984 dirige il Corpo di ballo del Teatro Massimo di Palermo. Tra le sue più importanti coreografie "Pulsazione", da cui l'omonimo dvd del 2007, "VII Sinfonia di Beethoven", "Romeo e Giulietta" e "Alexander Niewsky". Ha lavorato anche per la Rai, France 2 e Tve spagnola. Con la "Compagnia Vittorio Biagi" ha portato in scena oltre trecento balletti/creazioni, trentacinque opere liriche, venticinque spettacoli, dodici operette, due commedie musicali. Attualmente è uno stimato docente di danza, tiene stage e masterclass di alto livello tersicoreo, siede nelle Giurie e Commissioni dei più rinomati Concorsi ed eventi di danza nazionali ed internazionali.

Carissimo Vittorio, chi ti conosce bene sa che sei nato per la danza e la danza vive in te?
Hai ragione Michele, sono nato ballerino! Fin da piccolissimo ogni occasione era buona per danzare, mi piaceva ballare il tip tap perché lo imitavo vedendo le pellicole con Gene Kelly e Fred Astaire. Ricordo di aver vinto anche un premio di Charleston e poi un altro di Rock and Roll a Genova!

Com'è stato il periodo della tua formazione, a chi ti sei affidato per diventare poi uno tra i più internazionali danzatori e coreografi italiani?
Un giorno a Genova, mia città di adozione, ho incontrato Paolo Bortoluzzi, sicuramente il più grande ballerino italiano. Vedendomi ballare mi ha proposto di prendere lezioni di danza classica ma io non ne ho voluto sentir parlare. In seguito, verso i 13/14 anni, il noto sindacalista televisivo Domenico del Prete mi ha proposto anche lui di dedicarmi alla disciplina classica. Così mi sono iscritto alla Scuola diretta da Ugo Dell'Ara (coreografo e direttore del Corpo di ballo al Teatro alla Scala per sette stagioni) e di Mario Porcile (fondatore e direttore del Festival Internazionale del balletto di Nervi) in via Luccoli e ho incominciato a studiare con la maestra Maria Molina, già allieva del Maestro Enrico Cecchetti, che ai quei tempi era in Scala. Ho imparato più velocemente degli altri e il mio corpo era attitudinalmente predisposto ai canoni accademici, così ha avuto inizio la mia carriera. In breve sono entrato a far parte del gruppo di Ugo Dell'Ara, Paolo Bortoluzzi, Riccardo Duse, Olga Amati e altri ballerini portando in giro diversi spettacoli. In seguito mi sono trasferito alla Scala di Milano e dopo l'audizione sono stato inserito subito all'ottavo corso, pur avendo solo tre anni di danza alle spalle, e quindi ho imparato la professione a pieno titolo.

Che aria si respirava alla Scala di Milano in quegli anni?
Ho studiato con impegno e dedizione dalla mattina alla sera in quel meraviglioso teatro alla Scala, che all'epoca era popolato dal gotha artistico mondiale... ricordo Maria Callas, Renata Tebaldi, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli e poi tanti celebri registi, ballerini e direttori d'orchestra. Appena potevo mi intrufolavo tra le quinte a guardare, ad ascoltare e a curiosare quel mondo così magico! Perciò oltre agli studi mi sono formato anche come artista, proprio perché mi sono nutrito quotidianamente di "teatro"!

Raccontami del tuo periodo milanese e di quando Balanchine ti scelse personalmente per una sua creazione?
Ho sostenuto vari ruoli da Solista alla Scala pur essendo ancora allievo della Scuola. Un giorno il Maestro Balanchine, in sala prove, disse senza esitazione "voglio lui" indicando me – ero il quinto sostituto posizionato in fondo alla sala – per il "Palazzo di Cristallo". La direzione replicò negativamente dicendo che ero ancora un semplice allievo ma Balanchine disse "è un ruolo che può fare"... e in effetti fu un'esperienza molto intensa. La stessa cosa accadde anche con Massine, quando un Solista nominato del Corpo di Ballo si infortunò, mentre provava il suo "Romeo e Giulietta": tutti rimasero spiazzati perché non c'era un sostituto in grado di interpretare il ruolo e così mi feci avanti e mi proposi. Mi misi in posizione, eseguii subito i passi ed ebbi il mio secondo ruolo da Solista ottenendo anche un supplemento di cachet e sui manifesti apparve il mio nome in qualità di Solista, al mio fianco danzavano étoile del calibro di Liliana Cosi e Carla Fracci e il compianto Mario Pistoni... Malgrado ciò però non fui nominato ufficialmente nella gerarchia dell'organico, mentre oggi tutto è cambiato, molte star acclamate di questi tempi hanno ricevuto la nomina appena maggiorenni, mentre allora in Scala era impossibile! Piuttosto ti aumentavano la paga ma non ti nominavano ufficialmente. Tra l'altro mi ero creato anche molti nemici per la mia cristallina tecnica, come succede spesso dentro ai grandi enti lirici. A quell'epoca un giovane che nutriva grandi speranze si cercava di frenarlo, per tenerlo maggiormente sotto controllo. Così decisi, visto anche il mio temperamento "moderno" e un po' ribelle alle regole, di andarmene cogliendo al volo l'occasione di recarmi a Bruxelles da Maurice Béjart, lasciando in Scala alcuni cari amici tra cui Amedeo Amodio con il quale si era instaurata un'ottima intesa artistica... non smettevamo di lavorare, sempre dietro agli altri, da soli ma mossi da un'inesauribile passione ed entusiasmo!

Come si presentò, bene appunto, l'occasione di conoscere Béjart?
Mentre ero a Milano in Scala accadde una novità nel mondo della danza... una Compagnia diretta da uno sconosciuto di nome Maurice Béjart venne a Milano, portando in scena uno spettacolo al Teatro Orfeo, ed io con alcuni amici danzatori - tra cui un ballerino jugoslavo che conosceva alcuni elementi della compagnia - decidemmo di andare all'evento e al termine mi fu proposto di entrare in Compagnia. Al momento rimasi sorpreso e confuso perché mi ero dedicato al balletto classico pur nascendo come vocazione modern, però vinti i primi dubbi risposi che ci avrei pensato... dopo solo tre mesi ero già nella Compagnia di Béjart. Rammento di aver accompagnato l'amico Paolo Bortoluzzi a Bruxelles dove era stato preso tramite audizione, e Béjart dopo avermi visto a lezione con la compagnia mi disse: "Se vuoi rimanere c'è posto anche per te". Ero al settimo cielo per la gioia e così rimasi senza rientrare più in Italia. Era il 1960, tornai solamente nel 1978 per dirigere il nascente Aterballetto a Reggio Emilia. Ormai parlavo quasi esclusivamente il francese!

E "passo dopo passo" sei diventato una punta di diamante al fianco di Béjart?
Béjart allora aveva trentasei anni, aveva già fatto alcune cose importanti, ma soprattutto aveva avuto l'occasione di formare una Compagnia Internazionale in Belgio scritturando ballerini da ogni parte del mondo. Grazie al suo intuito, parlò con il direttore del Teatro Reale della Monnaie, ed ebbe l'idea straordinaria di far scritturare Assaf Messerer, il più grande maestro del Teatro Bolshoi di Mosca e fu questo principalmente il motivo perché io e Bortoluzzi accettammo di recarci a Bruxelles, per poter studiare con uno tra i più immensi maestri del mondo. Avevo diciotto anni mentre Paolo ne aveva ventuno, logicamente poi una volta conosciuto anche il genio e l'estro creativo di Béjart ci siamo immediatamente innamorati del suo modo di lavorare... un metodo personale che partiva sempre dalla base classica! Quindi al Ballet du XXe siècle ho avuto la fortuna di studiare con il più grande maestro del teatro moscovita, costruendomi per tre anni una tecnica ed uno stile ad altissimo livello coreico. Tanto che poi sono stato Étoile all'Opéra di Parigi in qualità di Guest Artist. Dopo gli anni di studio con Messarer sono seguiti tre anni con Victor Zowskic e Tatiana Grantzeva... dalla grande Scuola del Bolshoi alla grande Scuola di Leningrado. Un'occasione quotidiana di formazione unica con eccezionali maestri unitamente alle creazioni del geniale e carismatico Maurice Béjart, il quale in seguito mi offrì anche l'occasione di coreografare perché credeva nel mio talento. Io sono un percussionista jazz, prima ancora di essere ballerino, e quindi proposi delle creazioni su questo genere musicale con un occhio classico! Nacque così "Jazz impressions" che nel 1964 andò in scena al Teatro Reale della Monnaie: un successo trionfale che nessuno si aspettava ma che Béjart aveva già intuito. E da quel momento non fui soltanto ballerino ma anche coreografo e la mia vita cambiò diventando straordinaria. Sarò sempre riconoscente all'impareggiabile amico e maestro Maurice Béjart!

Cosa ti spinse ad accettare la direzione dell'A.T.E.R.?
L'interesse di Aterballetto nei miei confronti fu dettato inizialmente dalla mia carriera internazionale, e dal mio stile, ma anche per ciò che rappresentavo artisticamente in quegli anni in Francia. Ricordo che il Ministero della Cultura francese, nel 1975, mi finanziò per la creazione della "Divina Commedia" di Dante Alighieri: un evento mondiale. Perciò i dirigenti dell'Ater furono incuriositi dal mio essere coreografo e vennero in Francia chiedendomi di poter portare in Italia quella produzione, che contava più di ottanta artisti, una complessa macchina scenica, musiche elettroniche e da quel momento in Italia si iniziò a parlare di Vittorio Biagi. Poi mi fecero la proposta di trasferirmi a Reggio Emilia per fondare Aterballetto - la prima compagnia indipendente di danza - vista anche la mia decennale esperienza alla direzione con una fattiva e costruttiva conoscenza della professione... nacque così la Compagnia. Allora era formata da quaranta ballerini e un repertorio internazionale. Ringrazierò per sempre l'Aterballetto per avermi offerto quest'opportunità, ma abituato alle grandi capitali europee mi stava stretta la provincia italiana ed in seguito mi dimisi e trasferii a Roma dove fondai "Danza Prospettiva" grazie ad una sovvenzione elargita per il nome che mi ero fatto. Nel mezzo fui invitato dai più grandi teatri del mondo, staccavo magari per una ventina di giorni lasciando in mia vece l'assistente (come accadde spesso mentre dirigevo il Ballet de Lyon) e mi recavo, ad esempio, a Buenos Aires oppure all'Opera in Grecia o negli Stati Uniti... sentivo proprio la necessità di viaggiare e di relazionarmi con nuove realtà in cerca di stimoli. Non ho mai amato particolarmente rimanere in un luogo fisso per troppo tempo.

Infatti oltre a Danza Prospettiva e al Ballet de Lyon hai diretto anche il Corpo di Ballo del Teatro Massimo di Palermo e hai fatto parecchia televisione in Rai?
La televisione arrivò nel 1980, grazie al critico di danza Vittoria Ottolenghi la quale mi presentò al compianto regista Antonello Falqui che in seguito mi diede molto spazio per il balletto. Per questi grandi show, soprattutto del sabato sera, creai ad esempio la "Settima Sinfonia" di Beethoven, arrivando a montare dodici balletti a serata con allestimenti fastosi, non certo gli stacchetti del giorno d'oggi ma degli autentici balletti, esattamente come si preparavano nei grandi teatri. Nel 1983 mi venne proposta la direzione del Teatro Massimo di Palermo così mi alternai tra i miei ballerini di "Danza Prospettiva" e il Corpo di Ballo di Palermo. Per il Massimo creai dei balletti meravigliosi grazie anche al supporto della Direzione del Teatro al fianco di ottimi collaboratori... Ma dopo tre anni di notevole lavoro il Sindacato non permise di far partire la compagnia in giro per il mondo perché ritenevano le mie creazioni un'esclusiva loro e così diedi le dimissioni perché era venuta a mancare la mia idea di "movimento culturale" come invece fu possibile a Lione o a Reggio Emilia. Fui dispiaciuto nell'andare via più che altro perché consideravo Palermo una splendida città ricca di arte e di spunti... ancora oggi conservo dei meravigliosi ricordi di quel periodo siciliano. Così ripresi in mano totalmente la mia compagnia "Danza Prospettiva" e ripartii anche con la televisione prendendo parte a storici programmi, sempre con Antonello Falqui, avendo nuovamente la possibilità di portare la "mia" danza al vasto pubblico da casa, alternando la professione di coreografo internazionale in giro per il mondo. Poi fondai e diressi anche il "Nuovo Balletto di Roma" per permettere ai ballerini di avere una continuità lavorativa, portando in scena eccellenti creazioni con tournée in Italia e all'estero attraverso storici Festival. Ricordo con piacere anche la collaborazione con Alicia Alonso alla quale gli dedicai un balletto "La morte di Cleopatra" e poi rimontai anche la mia più celebre coreografia "Pulsazione" con i suoi straordinari e talentuosi danzatori. In seguito scoprii, dandogli il ruolo di Mercuzio nel mio "Romeo e Giulietta" un giovanissimo Julio Bocca mentre mi trovavo a lavorare in teatro a Buenos Aires. Insomma tante significative esperienze e soddisfazioni artistiche e personali.

Dopo questa esperienza hai avuto l'onore di ricoprire ruoli da Étoile al Balletto dell'Opéra di Parigi?
Andavo spesso a Parigi con la Compagnia di Béjart, i direttori del teatro dell'Opéra mi conoscevano, mi vedevano e mi fecero la proposta di diventare Guest Artist, non propriamente étoile, perché non mi ero formato scalando la gerarchia del Corpo di Ballo parigino e soprattutto perché non ero "assunto fisso" all'interno del Teatro. Mi fecero un contratto per tre anni dovendo eseguire venti spettacoli all'anno, però in realtà ne facevo in media otto al mese perché una volta entrato all'Opéra e all'Opéra Comique presi parte a numerose produzioni. Mi feci questa esperienza triennale in veste di Étoile che mi permise di danzare con grandi ballerine come Claude Bessy, Josette Amiel, Noelle Pontois e tante altre. Essendo già coreografo e non impiegato stabile ricoprii sempre il ruolo di ospite.

Mentre a Lione?
A Lione mi sono recato nel 1969 rimanendoci per ben sette anni. In quel luogo ho creato più di sessanta balletti, di cui alcuni tra i più importanti della mia carriera come "Romeo e Giulietta" e "Pulsazione" che attualmente è in repertorio al Balletto Nazionale di Cuba, al Teatro di Buenos Aires, ad Amburgo e in molti altri teatri.

Hai lavorato anche con Paolo Grassi e Giorgio Strehler, fondatori del Piccolo Teatro di Milano?
Sì, ricordo che in Francia vennero molte persone ad ammirare "questo giovane italiano" tra cui anche Paolo Grassi che allora era Sovrintendente al Teatro alla Scala di Milano. Negli anni 1976/77 mi scritturò per creare le coreografie, allo spettacolo d'inaugurazione della stagione scaligera, con la regia di Giorgio Strehler, nell'opera lirica "Macbeth" di Giuseppe Verdi.

E Vittoria Ottolenghi?
L'insostituibile ed unica Vittoria Ottolenghi parlava sempre molto bene di me. Rammento che durante una mia tournée in Italia ebbe modo di scrivere su un autorevole quotidiano: "Questo italiano è talmente bravo... ma perché non viene in Italia a lavorare?"

Vittorio nelle tue creazioni ti sei lasciato spesso ispirare dal Sacro, giusto?
Ho creato dei balletti religiosi splendidi come la "Passione di San Giovanni". Sono stato il primo a portare in scena una cosa del genere perché in passato erano state messe in scena solo qualche Cantata ma tutto lo spettacolo per intero con orchestra, coro, solisti e una scenografia straordinaria è stato ad appannaggio mio. Sono l'unico coreografo al mondo che ha creato più di quattro "Requiem" tradotti in coreografie tra cui il "Requiem senza parole" di Alberto Bruni Tedeschi e il "Requiem" di Berlioz, il "Requiem" di Mozart e il "Requiem" di Verdi. Sono molto legato a questi titoli perché, a mio avviso, la danza è un rituale pulito, sincero, profondo e certamente non solo estetico!

Come vivi la tua popolarità?
Michele io non sono popolare! Certamente sono conosciuto dai grandi, sono sulle Enciclopedie, sono annoverato come un personaggio storico della danza e del balletto internazionale ma come tu ben sai in Italia, oggi come oggi, bisogna apparire in televisione per essere popolari. L'arte vive anche di paradossi!

Tra i coreografi contemporanei della scena attuale a chi va il tuo plauso?
Mi piace e guardo con grande interesse Jiri Kylián, Nacho Duato, John Neumaier e altri nomi internazionali. Comunque parliamo di coreografi e non di passettari come li chiamano i romani, anche perché in giro ne vedo anche fin troppi appartenenti a questa "categoria"... portano in scena passi passi passi senza un briciolo di cultura, di storia, di stile e soprattutto dimenticando totalmente l'aspetto musicale.

Come definire la tua danza e la tua personalità artistica, caro Vittorio?
Sicuramente sono nato jazz ma ho lavorato talmente tanto sulla disciplina classica che assistendo alle mie coreografie si percepisce un sottile filo che lega questi due stili. Mi sono in qualche modo sentito l'erede di Robbins, perché dentro di me convive il jazz, arricchito da una forte componente religiosa.

Michele Olivieri

Domenica, 11 Febbraio 2018
Pubblicato in Interviste

Fabrizio Favale è nato a Velletri in provincia di Roma. Ha iniziato la sua formazione nelle classi di maestri di danza classica e contemporanea tra cui Denis Carey, Victor Litvinov, Sue Carlton Jones, Andé Peck, Roberta Garrison, Jeff Slayton, Betty Jones, Nina Watt, Irene Hultmann, Louise Burns e Alwin Nicholais. Grazie alla vincita di una borsa di studio, nel 1990 si trasferisce in America e prende parte all'American Dance Festival alla Duke University nel North Carolina. In qualità di danzatore riceve nel 1996 il "premio della critica come miglior danzatore italiano dell'anno". Come coreografo nel 2011 la "Medaglia del Presidente della Repubblica al talento coreografico italiano". Dal 1991 al 2000 è danzatore per la compagnia Virgilio Sieni. Nel 1999 fonda la compagnia "Le Supplici". Dagli anni successivi i suoi lavori sono invitati in importanti contesti della scena internazionale come La Biennale di Venezia, Suzanne Dellal Tel Aviv, Expo 2010 Shanghai, SIDance Seoul, Kitazawa Town Hall Tokyo, La RED Serpiente Messico, Santarcangelo Festival, Gender Bender, Danae Festival Milano, Festival of Edinburgh, Internationale Tanzmesse NRW Dusseldorf. I lavori "Un ricamo fatto sul nulla" e "Il gioco del gregge di capre" ricevono premi per la coreografia in Spagna, Germania e Serbia. Tra il 2005 e il 2007 realizza il progetto "Mahabharata" – episodi scelti in cui collabora con Francesca Caroti, Roberta Mosca e David Kern (Forsythe Company) e con il gruppo Mk. Nel 2012 realizza un cortometraggio per "The Valtari Mistery Film Experiment" dei Sigur Rós. È ideatore di una serie di progetti indipendenti dedicati alla ricerca tra cui: Piattaforma della Danza Balinese per Santarcangelo Festival e Gamelan progetto interamente prodotto dal Festival Fabbrica Europa Firenze ed esportato in altri importanti contesti della nuova danza (entrambi i progetti sono co-ideati con i coreografi Michele di Stefano e Cristina Rizzo), "Leib" 2004, "Piana del Mar" 2007, "Circo Massimo" per Teatro Duse e "Le Supplici Youth dance Art" 2017 un atelier periodico tenuto direttamente dai danzatori della compagnia "Le Supplici". Collabora con musicisti internazionali come Mountains, Teho Teardo, Daniela Cattivelli. Il lavoro Ossidiana è invitato alla Biennale de la Danse de Lyon 2016 e la produzione CIRCEO 2017 è coprodotta da Théâtre national de Chaillot, Paris. Tra i suoi lavori: Ganimede Show 1999, Vent – The Perfect Place – 2000/2001, Vent – Pulverized version – 2002, Vent Pulverized | l'errore 2003, Opera scorpione 2003, The unclean rest 2003, II H 2005, Mahabharata – episodi scelti 2005/2008, Kauma 2008, Voglio essere tuo allievo 2008, Il gioco del gregge di capre 2008, Se fossero le Alpi 2009, Infanzia di San Francesco d'Assisi 2011, Un ricamo fatto sul nulla 2011, Isolario 2012-13, Cartografia disabitata 2012-13, Tre Inverni consecutivi 2013, Alberi 2014, Fantasmata (lecture / performance) 2014, Orbita 2014, Ossidiana 2014, Hood 2015, Sant'Ingenuo 2015, 12 Tónar 2015, Waterfalls 2016, Seagull Sleeps 2016, Giuliano 2016, Studi per Circeo (Narvalo, Vavilov, Hekla) 2016.

Ciao Fabrizio, da dove parte il tuo interesse per la danza?
Dalla possibilità, credo, di indicare mondi inesistenti.

Quali sono state le tue figure di riferimento nel periodo della formazione?
Trisha Brown, Merce Cunningham, José Limon. I miei maestri sono stati principalmente americani e quasi tutti danzatori di questi tre giganti della danza.

Qual è la maggiore qualità estetica che apprezzi applicata al movimento?
Mi interessa la ricercatezza, la complessità, la raffinatezza del movimento, anche in quello più selvatico, per così dire. Non mi interessano le vie della narrazione teatrale o della spettacolarità fine a sé stessa, che ammicca al consenso del pubblico.

La tua danza si basa su un linguaggio libero da ogni tentativo di rappresentazione o tutto segue sempre un filo logico nella narrazione?
Per me la danza non narra delle cose del mondo, ma è una manifestazione e un modo dell'apparire del corpo umano (ma anche di molti altri animali), che abbandona la mondanità mediante l'attraversamento di tutte le forme, per scagliarsi al di là, verso gli astri, potremmo dire. Ecco perché astrazione è il termine che a mio parere più le si addice!

Parlami del tuo periodo negli Stati Uniti, dove hai vissuto l'esperienza all'American Dance Festival?
Nel North Carolina, dove si svolge d'estate il Festival. Nel campus e negli spazi della 'Duke University'. È stata un'esperienza fondamentale. Lì ho trovato quello che, dopo anni di irrequietezza, andavo cercando con ardore. Poter incontrare maestri del calibro di Jeff Slayton o Betty Jones è stata una fortuna non da poco. È anche uno scrigno del tesoro della memoria da riaprire di tanto in tanto, o spesso, a seconda. Parlo di irrequietezza, perché qui in Europa abbiamo una danza delle emozioni, per così dire, e tutto è in funzione delle esperienze umane. Ero stato preparato alla danza qui in Italia da maestri eccezionali come Roberta Garrison e André Peck, anch'essi americani, ma se mi guardavo attorno mi pareva che tutto andasse da tutt'altra parte. Quella visione della danza mi stava strettissima. Ho sempre creduto che esistesse un'intelligenza diversa, da esplorare. Che bisogno c'è, mi chiedevo, di danzare la mondanità, la quotidianità, le emozioni o i sentimenti se già li viviamo? Mi sembrava un passare e ripassare sullo stesso tracciato egoico. Ma negli Stati Uniti vidi con i miei occhi (a diciannove anni) che altri mondi erano possibili.

Quali sono le maggiori esperienze e ricordi che custodisci di quel periodo?
Aver visto "Set and Reset" di Trisha Brown, senz'altro, con il cast originale (con Irene Hultman, fra l'altro, e l'anno successivo sarei divenuto suo allievo a Reggio Emilia). E poi repertorio Cunningham, Graham, Limon. Essendo poi la 'Duke University' un campus universitario immerso nei boschi e nell'immensa natura americana, si respirava un'atmosfera pressoché introvabile dalle nostre parti, e che era fatta di totale immersione nelle attività che la borsa di studio prevedeva, ma anche di gioco, di nuovi amici, di totale apertura, di scorribande nei boschi. È stato senz'altro come vivere una realtà magica.

Per quasi dieci anni hai danzato con la Compagnia di Virgilio Sieni. Qual è stato il valore aggiunto nell'aver lavorato così a lungo al fianco del M° Sieni?
Sieni mi vide a Reggio Emilia che ero ancora studente (avevo vent'anni) e mi propose subito di lavorare per lui. Non aveva ancora una compagnia stabile e lavorava per lo più con danzatori del Comunale di Firenze o del Balletto di Toscana. Inizialmente ero un po' dubbioso perché non volevo legarmi troppo presto ad una compagnia. Ma l'atmosfera che trovai in sala prove era molto aperta e mi affascinò. Sieni mi lasciava libero di sperimentare e di creare. Fece senz'altro tesoro del bagaglio di movimento freschissimo e vario che portavo con me. Disegnò per me danze bellissime e complesse che soddisfacevano appieno la mia energia poco più che adolescente. In Italia non potevo chiedere di più, e, d'altronde, volevo con tutto me stesso vivere in Italia. Sieni mi ha fatto coreografare anche molto le mie parti danzate, specie negli ultimi anni. Quello che ho imparato da lui è stato, credo, essere me stesso, quello che ero. Inoltre la sua bravura nel gestire i grandi gruppi e l'insieme del lavoro è stato per me un esempio fondamentale.

Da dove nasce poi l'esigenza di coreografare?
Non credo ci sia mai stato un momento in cui non ho coreografato. Diciamo che a un certo momento, dopo l'esperienza con la compagnia Sieni, l'esigenza si è fatta più importante. Certo il mestiere del danzatore e del coreografo non sono affatto la stessa cosa. È un errore grossolano pensare che lo siano. Se le due vie coesistono nella stessa persona, andrebbero considerati come gli occhi di certi cani delle zone polari, uno azzurro, uno castano. Eppure è di cani delle zone polari che parliamo quando parliamo di coreografi, perché, a mio parere, è indispensabile che un coreografo sia stato anche un danzatore. L'autodidattica è un'assurdità. Nessuno può davvero imparare solo da sé stesso. Come dicevo poco fa, della danza mi interessa la sua possibilità di indicare mondi inesistenti e definitivamente non riconducibili alla mondanità. Questa possibilità è ciò che più mi emoziona. Penso di non essere mai stato tanto commosso come quando ho visto "Opal Loop" di Trisha Brown: un lavoro disarmante che si proietta in una distanza senza possibilità ritorno.

Quanto è fondamentale nel tuo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e lo spazio?
È fondamentale! È dall'ascolto che nascono le idee, non dal dire. Potremmo dire che le idee sono le risposte ai silenzi, persino. Le invenzioni che generano i nuovi lavori le rintraccio spesso in solitudine, ma sempre in risposta a un atto di ascolto, sia con i miei collaboratori o danzatori, sia con la musica, con i paesaggi, con l'immaginazione, con gli animali...

Ho avuto modo di assistere ad alcuni tuoi lavori, e ho notato, che la tua è una danza che affina la percezione, o sbaglio?
Non saprei. Non ho mai suggerito a nessuno come guardare la mia danza, e non ho idea degli effetti che ha, se ne ha. Di certo si dispiega su tempi lunghi, che hanno a che fare con variazioni a volte impercettibili, minime. Non sono interessato al puro intrattenimento, a quell'efficacia spettacolare che somiglia troppo alla televisione o a youtube. Sono interessato alla contemplazione, alla possibilità di affioro di un'emozione inaspettata e non programmata a tavolino. L'esperimento può riuscire oppure no, dipende da tanti fattori. Certo è che in un'era, potremmo dire, del "tutto e subito", mi rendo conto che la nostra traiettoria di compagnia naviga in direzione opposta. Ma fare altrimenti davvero non ci interessa.

A tuo avviso quali sono le sostanziali differenze, nel metodo d'insegnamento, tra la danza contemporanea in Italia e negli Stati Uniti?
Che io sappia l'Italia non ha più insegnanti di danza contemporanea, e quelli che ha avuto erano americani, appunto (penso ancora a André Peck, a Roberta Garrison ad esempio). Per il resto ci sono principalmente coreografi che insegnano, ma è molto diverso. Anche qui c'è molta confusione: essere un maestro o fare il coreografo non è la stessa cosa. È così che i nostri danzatori presentano una infarinatura di tutto e una conoscenza di poco. Nessuno ha più voglia di studiare perché tutti sanno che, bene o male, potranno danzare. Anche in Europa va così, a parte nelle grandi scuole. Forse, ora mi azzardo in un senso un po' inattuale: quella che chiamiamo "performance" (che poi non si sa bene cosa stia ad indicare), ha simultaneamente alzato il livello delle possibilità sceniche e abbassato l'ardimento dei nostri danzatori (sto parlando di insegnamento della danza contemporanea. Nella danza classica si rintracciano ancora ottimi maestri e danzatori, per fortuna.) In America è diverso, hanno ancora le grandi scuole delle tecniche inventate da Cunningham, Graham, Limon, Nicholais, e anche le sperimentazioni più ardite del passato (penso che so a Paxton, a Brown, a Childs, a Rainer) presentavano danzatori formidabili.

Negli Stati Uniti il danzatore classico è formato per danzare anche il contemporaneo. In Italia questo non avviene sempre?
Infatti, sono due mondi e dimensioni che corrono parallele e si incontrano pochissimo. Devo dire che io lavoro solo con danzatori di formazione classica, perché sono quelli più preparati. E sono molto fortunato perché ho danzatori bravissimi e molto aperti mentalmente al nuovo. Ma quello che manca è la storia nei corpi, per così dire, come se nulla fosse stato sedimentato, e la raffinatezza, quelle sfumature del gesto che grandi maestri hanno messo a punto, quelle qualità inaudite che grandi coreografi hanno inventato, non sono sopravvissute, se non in un'infarinatura da un'occhiata su youtube...

Tante sono le tue creazioni di successo, a quale sei più affezionato?
Forse a "Infanzia di San Francesco d'Assisi". Ma non è stata affatto una creazione di successo... E, tanto per rimanere fedele al mio spirito di contraddizione, non è affatto un lavoro astratto. Non è neanche narrativo nel senso classico della parola, eppure narra, a suo modo.

Tra tutti i giovani coreografi della scena nazionale ed internazionale chi reputi interessante?
Mi piacciono Shang Chi Sun e Po-Cheng Tsai, entrambi Taiwanesi. Sono coreografi che davvero inventano mondi inesistenti e utilizzano un ampissimo vocabolario del movimento. E mi piacciono gli italiani Dewey Dell e Monica Gentile; anche loro seguono una strada del tutto personale, fortemente inventiva e indipendente. E una forte dose di indipendenza credo che in Italia sia necessaria, per sfuggire a quell'influenza luccicante e nefasta di una certa politica culturale che sempre più rapidamente sembra spingere i giovani autori nella direzione della "vendita ora e subito". Senza passare dalle ben note e necessarie "cantine": subito sotto i riflettori della ribalta internazionale.

La musica che ruolo gioca nel tuo lavoro?
Ci sono alcuni tipi di musica che si addicono alla danza e sono quelli che più la lasciano libera nella sua corsa. Anche qui, devo dire, non mi interessa l'intrattenimento, ma la possibilità di incontrare stati non convenzionali del sentire, dell'emozionarsi. Collaboro con i "Mountains", una band americana, e con Daniela Cattivelli. In loro trovo una sorta di libertà.

Il tuo primo lavoro coreografico a cosa si ispirava e dove è stato rappresentato?
Al mito di Ganimede. Era tuttavia un pezzo molto astratto in collaborazione con il musicista Maurizio Martinucci che compose delle sonorità davvero stupefacenti. Era un brano coreografico di trenta minuti costruito per quadri non consequenziali, che esploravano una possibilità di rimando fra atmosfere puramente danzate e atmosfere arcaiche, senza tempo. Le prime rappresentazioni furono a Ravenna e a Roma, ma successivamente arrivò anche al "Montpellier Danse" in Francia.

"Circo Massimo" è stato in scena per quattro mesi consecutivi al Duse di Bologna. Un grande successo?
A livello di spettatori il Duse è abituato a ben altri numeri, perché, notoriamente, è un teatro popolare. Ma il successo consiste nel progetto in sé, nell'azzardo di aver portato un progetto sulle nuove tendenze della danza in un teatro classico, appunto. La risposta del pubblico e della critica è stata ottima, e la risposta degli artisti invitati entusiasmante. Speriamo davvero ci siano i presupposti e la costanza per proseguire il progetto, perché è davvero una porta che si può aprire come esempio anche per altri teatri italiani.

Dirigi una tua Compagnia "Le Supplici". Quali sono i maggiori problemi riscontrati per chi vuole fare danza a livello professionale nel nostro Paese?
La persuasione che, in fondo, della danza si possa benissimo farne a meno. Lungi dall'essere ancora quella manifestazione inesplicabile per cui l'uomo (ma anche altri animali) da sempre, e senza ragione, iniziano a danzare per gli Dei o per la Natura, chissà, la danza è oggi oggetto fra gli oggetti, suscettibile dunque di essere comprato/acquistato, utilizzato, sostituito, gettato via. Questa è la premessa valida per tutto l'Occidente. Quando parliamo di investimento e sostegno economico alla danza rischiamo di mancare il bersaglio: la danza va sostenuta economicamente non nel senso dell'investimento che poi, in un modo o in un altro, tornerà indietro ancora sotto forma di economie, ma nel senso di tutela, come si tutelano, ossia gli si permette di esistere ancora, gli stambecchi sulle Alpi. L'investimento sulla danza italiana da parte degli enti italiani stessi, è stato da sempre pressoché inesistente proprio per questo motivo: c'era o non c'era un ritorno? Nessuno sa dirlo con certezza. Ora sembra muoversi qualcosa, ma rimarcando ancora di più l'errore: c'è una corsa e un'attenzione esclusiva al prodotto nella sua forma di intrattenimento più immediata, che porti pubblico a teatro, che faccia girare economie. I direttori dei teatri e di molti festival qualche risultato lo ottengono – vedi le Stagioni piene di repertorio classico, di titoli che riecheggiano e riproducono infinite "Carmen", "Bolero", "Lago dei cigni" ecc. – e magari per una sera hanno anche il botteghino sold out... Ma dopo questa presunta Restaurazione cosa verrà?

Come nasce il nome della Compagnia e qual è il suo punto di forza?
Le Supplici si rifà naturalmente al mondo greco antico. L'atto di supplicare, che in quel mondo ormai estinto ma che ci costituisce dalle fondamenta, si realizzava nell'inginocchiarsi e stringere e abbracciare, le ginocchia di colui a cui si chiedeva la grazia, un riconoscimento, un segno di assenso, è un'immagine che mi ha sempre commosso. Il punto di forza della compagnia credo che venga riconosciuto, soprattutto dall'estero, in un rigore della forma danzata che tende all'astrazione e che tuttavia sembra rivelare un sostrato fatto di mondi arcaici peculiarmente italici, che di volta in volta, e a seconda dei lavori, prendono forma e intensità diverse.

Dove trovi la fonte d'ispirazione per le tue coreografie?
Dalla natura, credo, e dal paesaggio italiano, dove sono nato. Ma sento di dover precisare che "paesaggio" per me ha una valenza immaginale, non letterale. Pertanto mi rendo conto che il paesaggio che vedo non è del tutto il paesaggio reale là fuori, e non è il paesaggio che vedi tu, che a tua volta avrai il tuo personale paesaggio immaginale.

Nei tuoi lavori cosa vuoi lasciare in eredità agli spettatori, una volta terminato lo spettacolo?
Ho appena parlato di paesaggio immaginale, ebbene credo che quello che mi piacerebbe lasciare allo spettatore è una traccia, una linea d'astrazione e di fuga che, attraversando di volta in volta paesaggi immaginali dalle grane spesso legate a elementi della natura italiana, e dunque grane fiabesche, arcaiche, contadine, prenda una curvatura e un riflesso diverso, come una polvere o un polline depositato sopra un piumaggio. Ed ecco che questa traccia si può ora prefigurare come un uccello in realtà, che sbattendo le ali si dissolve nella lontananza che tende all'astrazione, al puro linguaggio, in una traiettoria siderale verso ciò che non esiste.

Quando ti occupi delle audizioni per la ricerca di danzatori da inserire in Compagnia, cosa ti colpisce in un candidato/a?
Dipende dal lavoro che ci apprestiamo a realizzare, ma direi la persona nel suo insieme, il carattere. Poi a seguire la tecnica e l'abilità, certamente.

In conclusione, come ti senti di definire la danza come "veicolo e motore artistico culturale"?
La danza, e tutta la cultura, dovrebbe a mio parere restare nella sua inutile, stupenda distanza. Cerchiamo invece sempre o qualcosa di utile, cioè che generi profitto (ormai si parla di compagnie di danza come di "imprese"), che produca prodotti vendibili, oppure vi cerchiamo qualcosa di consolatorio, o di inquietante pure, ma purché parli sempre di noi, che ci racconti. Ciò che sfugge completamente è la totale e connaturata alterità della danza rispetto al mondano. Non si può imparare nulla se non si accetta l'alterità. Non si può capire nulla se non ci si mette in ascolto di un linguaggio definitivamente incomprensibile.

Michele Olivieri

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