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Domenica, 24 Dicembre 2017
Pubblicato in Interviste

A seguito del primo convegno nazionale interamente dedicato a "Costumisti e Scenografi" presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia ho avuto il piacere di incontrare Gianluca Falaschi, costumista di nuova generazione, che ha lavorato assieme ai migliori registi contemporanei della scena teatrale e operistica e che si distingue per originalità e forza espressiva.

Durante il convegno ha raccontato agli studenti dell'Accademia la sua variegata formazione, che spazia dall'architettura al costume. Potrebbe raccontarci il suo percorso formativo e in che modo è riuscito ad affermarsi come costumista?
Ho studiato in diverse università facendo anche tanti esami, ho fatto Architettura, il Dams e l'Accademia di Costume e Moda. Mentre facevo l'Accademia di Costume e Moda ho iniziato a conoscere alcuni grandi nomi che mi hanno dato la possibilità di fare il volontario, l'aiuto costumista. Ho studiato e ho cercato di approfondire con gli studi quello che mi interessava quindi la storia del teatro con il Dams; gli studi di architettura mi hanno trasmesso un certo modo di progettare l'abito e l'Accademia mi ha permesso di avere una visione d'insieme di quello che stavo facendo.
Il teatro era sempre al centro del mio studio.

Ha sottolineato quanto sia stato importante apprendere sul campo e grazie ad alcuni grandi nomi del costume che ha avuto la possibilità di incontrare, quali sono stati i maestri che hanno avuto maggiore influenza sul suo lavoro e perché?
Sicuramente Odette Nicoletti, perché mi ha mostrato un mondo inimmaginabile di fantasia supportato da una grandissima e rigorosissima tecnica. Non è difficile pensare che anche alcuni grandi costumisti che non ho avuto il piacere di incontrare mi hanno influenzato. Sicuramente l'ammirazione per certi nomi porta a farsi delle domande e a cercare di capire come siano arrivati a certe soluzione, ma certamente il lavoro dei maestri è un lavoro che serve come strada da seguire. Io ammiro tanti costumisti da Maurizio Millenotti a Milena Canonero a Odette Nicoletti, che come maestra è stata fondamentale. Tutto questo ha fondato il mio gusto. L'importante è che ci sia sempre una grande tecnica dietro quello che si sta facendo.

Si tratta della trasmissione anche di un saper fare a livello tecnico?
Io credo che il costume sia un saper fare è una tecnicità specifica, non è moda, è qualcosa di diverso perché è uno strumento di lavoro. Oltre la bellezza relativa del progetto conta anche una certa tecnica, che aiuti ad evocare alcune epoche senza per forza doverle esprimere in maniera tradizionale

È molto importante per lei anche lo studio storico della fedeltà filologica rispetto al testo teatrale?
Gli aspetti vengono totalmente stravolti, soprattutto nel teatro contemporaneo c'è la possibilità di approfondire, ma in una strada diversa completamente drammaturgica, per cui il costume assume un'influenza diversa anche meno ornamentale. Alcuni registi chiedono anche di depauperare della portata decorativista il lavoro per essenzializzarlo.

I suoi lavori sono sempre molto accurati sembra non esserci niente di lasciato al caso, come avviene la genesi del costume in fase di progettazione?
Dipende dai casi. In generale credo che il costume sia un fatto letterario, per cui la genesi del costume a volte si può ritrovare in alcune letture che ho fatto.  Per esempio i costumi realizzati recentemente del Bosco Viennese per la regia di Walter Le Moli al Teatro Due di Parma, si rifanno ad un cabaret berlinese e muovono i passi dal film Addio Berlino.
Mosso da un idea c'è un momento in cui la ricerca abbraccia tutto, di solito è una parte che preferisco fare per conto mio ed è totalizzante. Cominci ad aprire più finestre spesso più cartacee che computerizzate e quello che vedi di costume è la sintesi di un pensiero da fare con il regista e da solo o con una musica nel corso dei mesi di preparazione. In fin dei conti lo spettacolo è la sintesi di un lavoro, non è altro.

Nei suoi costumi c'è una dimensione onirica, la componente storica del costume viene ad incontrarsi con aspetti estremamente contemporanei, ad esempio il barocco che si incontra con con lati della cultura pop come lo steampunk, il suo stile potrebbe essere definito Pop Surrealista?
Non me lo sono mai chiesto. Io credo che il mio stile sia semplicemente il risultato del tempo che vivo. Abbiamo avuto dei grandissimi costumisti che hanno ricostruito la storia. Credo che quello che facciamo noi sia qualcosa di diverso, perché a volte cerchiamo di fare da ponte tra la storia e il tempo in cui viviamo.
Il fantastico, come nei sogni, non è mai inventato di sana pianta, ma c'è sempre una parte reale. Come nei sogni forse c'è una componente onirica, nel mio modo di disegnare appaiono cose per associazione di idee, per delle sintesi semplici più emotive che razionali.
Alla fine sono costretto ad organizzare il tutto in una maniera razionale, però è un rapporto molto forte con la realtà, più forte di quello che si potrebbe pensare. È una traslitterazione della realtà in altri vocabolari, a volte usando il grottesco, il surreale o lo stile espressionista come strumenti.
Il dettaglio serve solo a rendere tutto più plausibile e realistico nella sua follia, che però è una follia solo apparente.

Lei potrebbe essere il corrispettivo italiano di Colleen Atwood, la costumista di Tim Burton?
I paragoni con i maestri e sopratutto quelli grandi come Colleen Atwood mi pesano un po' perché io sono sincero non penso di mai di fare lo stesso lavoro delle persone che ce lo hanno insegnato. Penso sempre di essere un'altra cosa e sotto.
Il lavoro della Atwood l'ho ammirato molto sopratutto in alcuni film più piccoli e nascosti nei quali l'ho trovata sempre molto autentica a sé stessa.
Il mondo di Tim Burton affonda le sue radici nel lavoro di in un certo tipo di illustratori di impronta neogotica, sicuramente ha a che fare con la contemporaneità ed entra nel mio lavoro. Noi siamo in un epoca postmoderna, quello che vediamo ci nutre e in qualche maniera poi riesce fuori.

I suoi costumi sono riconoscibili, a mio avviso, per una particolare ricerca grafica e dei giochi di accostamenti cromatici struggenti, qual è il suo approccio al colore, ha un ruolo Importante nei suoi costumi?
Fondamentale, anche quando non c'è, ho fatto degli spettacoli in cui il colore principale era il nero, ma non era mai nero soltanto. Il colore è quello che riempie la forma,
Non è mai simbolista però ha un livello emotivo molto forte, penso agli acquarelli di Anna Anni che rendevano i balletti come dei quadri viventi, il colore è una cosa su cui mi interrogo molto perché cambia la sensazione di un'epoca. Il colore può servire sia per richiamare il significato che per negarlo che per decorare un'emozione. Spesso mi domando quanto possa funzionare in quel contesto e a volte posso ammettere di aver sbagliato alcune cose.

Il costume cambia continuamente, fino a che momento può essere cambiato, prima del debutto dello spettacolo?
Il costume viene sempre modificato anche perché il teatro si fa con le persone e le persone hanno i loro corpi e le loro esigenze. Io sono molto fedele al progetto, se l'ho pensato vuol dire che aveva un significato per me quindi ho un dovere nel seguirlo però è vero che ci sono tantissime variabili e il costume è una materia viva come il teatro. Possono succedere alcune cose che portano a fare delle modifiche, l'ultimo momento valido per modificare il costume è a una settimana della prima. Dalla prova antegenerale in poi lo spettacolo è quello che si consegna al pubblico.

Tornando alla questione del corpo all'interno dello spazio scenico, in uno dei suoi ultimi spettacoli in Germania ha fatto un lavoro di modellazione dei corpi attraverso un sistema di protesi che andavano a deformare i corpi per renderli grotteschi, come è nato questo esperimento?
I corpi erano più barocchi. La scelta di fare un'opera come Armida con dei corpi opulenti è nata dal fatto che mi sono interrogato sul senso del barocco in Germania, anche sul pubblico che lo avrebbe visto. Mi sono recato al Wunderkammer a Dresda e lì ho visto tutta la cultura delle miniature in osso o in corno che rappresentano sempre delle figure barocche, già nel corpo, quasi come se fosse una ricchezza nelle forme.
Io lavoro con I corpi quando posso, l'ho fatto anche a Roma con il Barbiere di Siviglia di Davide Livermoore, anche in Germania con Perelà. Credo che il corpo sia anche la moda del 2017, o meglio quando un tempo la moda era cambiare la silhouette del vestito adesso è la silhouette del corpo a cambiare. Quindi il lavoro sul corpo, sulle parrucche, sulle protesi, sul trucco è qualcosa che nutre il lavoro di uno straniante contemporaneo.
Il teatro contemporaneo non è soltanto la drammaturgia contemporanea ma è anche l'età in cui il teatro agisce e a volte lavorare sui corpi è lavorare su un'idea di costume che travalica il tessuto e arriva all'espressione fisica.
Questa è anche una lezione della danza, un certo tipo di teatro contemporaneo è molto legato all'uso del corpo e costringe invece a levare ad essenzializzare, dipende dal medium con cui si lavora, però il corpo è sempre al centro del palcoscenico e in questo momento è qualcosa da tenere in conto nelle varie possibilità di una messa in scena.
Anche molti artisti di arte contemporanea intraprendono lo stesso percorso.
Ancor prima di me questo è il risultato di una ricerca artistica, ha a che vedere con la ricerca di Orlan.
Credo che il costume abbia il dovere di tradurre in abiti il pensiero di una regia e al tempo stesso può trasmettere al pubblico delle sensazioni che hanno a che vedere con l'arte contemporanea.

Nella regina Elisabetta nel Roberto Devereux di Donizetti del regista Alfonso Antiozzi, lei fa indossare ad Elisabetta, Mariella Devia un costume che si de costruisce con l'avanzare dello spettacolo, qual è il senso drammaturgico di questa operazione?
Si costruiva con l'avanzare dello spettacolo e si de costruiva il personaggio. Nel senso che si cominciava lo spettacolo con questa immagine di lei che si prepara. Sicuramente uno sguardo al film Elisabeth c'è stato. Al momento in cui Elisabetta viene investita e viene vestita è costruito il personaggio. Abbiamo pensato ad un abito come un'armatura e quindi c'erano i servi che pian piano la rivestivano degli abiti di scena e la vicenda umana che man mano la smontava di quest'armatura. Si parte da un pensiero banale, però si è sorretti dalla musiche, era logico che l'armatura si smontasse e che piano piano rimanesse vestita solo dell'impero, rappresentato da una vestaglia, per poi perderla nel finale.
L'abito ha un senso prettamente legato a quello che si sta raccontando. il bello della musica è che spesso lo dicono le note, questo lavoro costringe a studiare delle cose che mai avrei studiato come ad esempio una partitura.

Cosa ha in cantiere, quali sono i suoi progetti in corso?
Sto preparando per Dresda Les Troyens; per Basilea Alcina di Hendel; ho un terzo appuntamento con Le Regine Doninzettiane a Genova mentre a Dresda e a Genova con Alfonso Antoniozzi facciamo l'ultimo della trilogia che è Maria Stuarda e forse devo fare un film, ma è ancora troppo presto per parlarne.

In questo periodo lei crede che ci sia attenzione in Italia a livello istituzionale nel promuovere il teatro?
È la crisi che stiamo vivendo, probabilmente bisognerebbe pensare all'Italia all'interno dell'Europa e forse pensare che il problema del teatro italiano non sia soltanto un problema Italiano, ma di tutta l'Europa.
Leggevo che si voleva chiedere all'Unesco di rendere patrimonio dell'umanità l'opera lirica italiana. Sicuramente il problema oggi è economico, ma è un problema che investe tutto il mondo, bisogna trovare una metodologia in Italia per farcela come negli altri paesi. Probabilmente riportando il teatro nella sua reale identità ovvero quella di essere della città, del cittadino e non nella città.
Il teatro è della città, è del pubblico. Bisogna garantire accessibilità al pubblico e questa probabilmente potrebbe essere una strada per riportarlo al centro. Perché il teatro, come tutte le cose, esiste finché la gente ci tiene. Non è solo la politica, ma anche il privato a volte potrebbe sostenere il teatro, per sostenerlo bisognerebbe dare l'opportunità al pubblico di entrarvi a contatto più facilmente

Come sarà il costume del futuro, le nuove tecnologie lo modificheranno?
Il costume cambia sempre a seconda dell'epoca, so che una grande costumista Anna Anni diceva che l'abilità è riuscire a fare un costume con i materiali che la tua epoca ti offre non con i materiali che vorresti trovare. Sicuramente le tecnologie cambiano io negli ultimi anni ho usato un certo tipo di stampa che mi ha permesso di fare alcune cose che altrimenti avrei potuto fare solo pittoricamente, la tecnologia cambia qualcosa. La fattura del costume rimane sempre la stessa, rimangono le stesse ore dei grandi artigiani vicino all'abito che stanno costruendo per noi.
Rimangono le stesse procedure di fare prima una tela bianca del modello e poi decidere le eventuali variazioni, rimangono le prove costume. Perché il teatro ha a che fare con il contemporaneo, ma anche con il passato, forse la ricetta è non perderlo del tutto, ma stare nel tempo senza perdere quello che è stato.

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