Corriere Lombardo, 19 novembre 1952
Gli Americani sono bravissimi nello scrivere tutti sempre la stessa commedia obbligando i recensori a scrivere sempre la stessa recensione (salvo, bensintende, quelli dediti alla citazione dei titoli ricavati dal Nuovissimo Melzi). È la commedia crepuscolareggiante della vita delle loro piccole città col suo grigiore e il suo conformismo; un mondo angusto e meschino – non ignoto nemmeno al teatro europeo – popolato di borghesucci umiliati ed offesi, di sfiancate massaie logorroiche che acciabattano per la casa commemorando quella che avrebbe potuto essere la loro vita e non fu, al fianco di un marito autorevole e ricco, riverito, vittorioso della lotta per l’esistenza – cioè, per loro, vittorioso della battaglia del dollaro con diritto d’essere socio del locale club dei notabili – e invece hanno a fianco il solito povero bue da lavoro di giacosiana memoria, tremebondo e senza ribellioni, al quale rendono la vita un inferno.
Le loro figlie sono generalmente delle commesse con aspirazioni rientrate alle quali si prepara il medesimo destino. Esse alimentano i loro sogni, sulle riviste a rotocalco e sui film di seconda visione; e quando non pensano ad Hollywood come al fulgido e ingannevole traguardo di quel successo che pare l’ossessione dei nostri amici del Patto atlantico, consumano i brevi anni della loro giovinezza a fare gite in automobile concedendo piccoli ma compromettenti anticipi sulla loro virtù a spensierati e goderecci figli di papà, trascurando e tormentando l’immancabile giovane povero che le ama sinceramente in silenzio e sa aspettare.
I loro figli sono dei giovanottoni quotatissimi nella squadra di rugby del rione, continuamente in cerca di avventurose quanto irraggiungibili ipercompensazioni ma senza mai riuscire a superare la cosiddetta fase infantile della loro personalità. Essi vanno all’assalto della vita come torelli che si slanciano contro la muleta. E quando i loro genitori credono, o si illudono di credere e di far credere, che i loro figli siano nelle grandi città in grossi posti di responsabilità con un mucchio di dipendenti sotto, vengono a casa e si scopre che sono dei disoccupati, falliti, respinti anche come semplici fattorini. Allora si danno all’alcol e quando sono sbronzi si gettano a russare sul sofà del tinello senza nemmeno togliersi le scarpe mentre in famiglia l’aggressività inibita si scarica in baruffe a ripetizione.
Più o meno, la provincia, penso, è uguale su tutti i paralleli. Da qualsiasi parte si analizzino codeste deserte storie di vinti che si arrabbiano, si tratta sempre di una sfilata di complessi d’inferiorità diluiti e ruminati in un realismo minuto, malinconico, petulante e patetico; dove, non si sa come e non si capisce attraverso quali o quanti edulcoranti travasi, è andato a cacciarsi un pizzico di cecovismo a fumetti. Insomma, la provincia americana la conosciamo ormai come le nostre tasche.
Sono commedie fatte prevalentemente di didascalie e sovraccariche di oggetti casalinghi di uso comune che costituiscono rispettivamente una comodità per il regista e una disperazione per il trovarobe. Il tal personaggio si muove da qua fin qua, il talaltro accende il gas oppure chiude il rubinetto dell’acquaio che sgocciola; un terzo si tormenta un foruncolo, un quarto si cambia i calzini mentre un quinto tira giù le tapparelle e un sesto traffica nelle condutture del bagno intasate. Poi si mettono a tavola e ci stanno venti minuti per farci capir bene tutto quello che mangiano; e prima uno ha apparecchiato e poi un altro sparecchia; e manca il caffè e il tè si raffredda; e alla fine siamo al punto di partenza. Al termine dell’ultimo atto, senza saperlo, gli attori hanno fatto e rifatto due o tre volte i mestieri di casa.
Cose più “viste” che dette; architettate in prospettive filmistiche; dove il dialogo è messo a servizio del gesto e non viceversa; a tutto vantaggio dell’inquadratura cinematografica e a tutto scapito della parola evocatrice unico autentico valore e perno di un testo teatrale. E tuttavia, proprio per il fatto che nelle infinite edizioni e nelle minime variazioni di tali monotoni esercizi, i cittadini di quello che è ritenuto il popolo più felice della terra si riconoscono e si compiacciono; e per giunta li esportano con una fastidiosa insistenza giustificata soltanto dalla circostanza d’aver vinto la guerra, noi non dobbiamo trascurare o sottovalutare l’importanza di questi squallidi documenti. C’è in essi una denuncia, se non proprio una disperazione, che seppur raramente espressa e trasfigurata poeticamente, non è per questo meno vera e meno sincera. Evidentemente la bomba atomica non dà la felicità.
Sunday Breakfast, di Emery Rubio e Miryam Balf, alla lettera “Colazione domenicale”, presentata ieri sera con cura ammirevole dalla nuova compagnia del Teatro stabile di Venezia diretta da Diana Torrieri, all’Excelsior, come Una famiglia americana, si guarda bene dal far eccezione alla regola generale. Semmai, attraverso un linguaggio entro i suoi piccoli e sperimentati, per non dire abusati limiti, lo conferma con l’autorità conferitale da un linguaggio meno approssimativo e generico un po’ più autentico del solito. Sono sempre le vecchie cose ma dette con una certa precisione. Il che è già qualche cosa.
La famiglia americana dei malrassegnati raduna questa volta un pover’uomo che ha una botteguccia da gioielliere, una moglie chioccia che spinge i figli verso pericolose e disastrose avventure nell’intento di far diventare qualcuno il maschio e di far sposare riccamente la femmina. Brava gente in fondo con una soffice imbottitura di nostalgico marzapane in fondo al cuore ma dove ognuno si fa tormentatore degli altri. La commedia ci fa vedere le ventiquattr’ore dal sabato alla domenica di questa povera gente; con le loro tempeste e le loro paci, le loro esasperazioni e le loro intimità, le delusioni e le speranze, gli abbattimenti e le euforie: una fettina della loro esistenza immobile consolata dall’anelito alle impossibili evasioni e puntualmente umiliata dai corrispondenti fallimenti. Il centro suggestivo della vicenda, che vorrebbe essere poetico ed è soltanto patetico, d’un patetico, almeno a mio gusto, eccessivamente insistito e messo a frutto ogni qualvolta il copione ristagna, e ristagna abbastanza di frequente, è costituito da una sperduta e spaurita bambina nata troppo tardi perché i familiari possano crearle intorno la calda, fantastica e fiduciosa e sognante atmosfera che è indispensabile all’infanzia. La presenza, lo smarrimento di questa infelice creaturina – deliziosamente interpretata dalla piccola Paola Sivieri – che a un certo punto fugge di casa, pone i personaggi della commedia di fronte alla coscienza e alle responsabilità delle loro intemperanze, non dico nemmeno dei loro egoismi; e, di tanto in tanto, li frena, fissandoli nella loro tristezza e nella loro malinconia.
Allestita con veristica meticolosità e ben calcolata e ritmata drammaticità da Daniele D’Anza, favorito da una ottima scenografia di Ricas, la commedia ebbe degli attenti, affiatati, sicuri e precisi interpreti in Diana Torrieri d’un’intensa, fonda e vibrante esasperazione psicologicamente giustificata; in Gigetto Almirante che modellò una di quelle sue indimenticabili figurine di vinti tutte nervi e umanità; in Paolo Carlini sincero e commosso, nella semplice e sofferta signorina Danesi, nel Blasi, nel Dolci, nel Giacobini e nella Fraccaro. La bella e impegnata esecuzione, mettendo nel giusto rilievo tutte le abili proposte teatrali del dialogo e dell’azione, ha valso alla commedia un persuaso e caldo successo. Molto apprezzato un ferro elettrico vero che sfrigolava come un vero ferro elettrico. Veniva voglia di gettare sul palcoscenico i pantaloni perché la signora Torrieri ci rifacesse la piega.
Carlo Terron