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Roberto BRACCO - Sperduti nel buio

Il Tempo, 17 novembre 1962

Evidentemente, il teatro italiano si considera molto ricco se può permettersi il lusso di liberarsi, più presto che può, anche di coloro che pur salutò come maestri. Il provinciale rigorismo delle sue istituzioni, anche le meglio qualificate – che di certi valori e di certe revisioni dovrebbero essere custodi e che viceversa, quando non scoprono l’acqua calda (rispolverando qualche classico minore che quasi sempre fa dormire in piedi), credono di attribuirsi dei meriti di scoperta eccezionali promuovendo ad opera memorabile qualche acquisito copione dialettale di repertorio – fa venire in mente quel tale che, per liberarsi dell’acqua sporca del bagno, butta dalla finestra anche il bambino.

Il bambino di turno oggi è il baffuto Roberto Bracco. Se non fosse stato il Teatro del Convegno a commemorarne il centenario della nascita con una onorevole esecuzione di Sperduti nel buio, nessuno si sarebbe ricordato che è esistito. E dire che, fino a Pirandello, se il moderno teatro italiano fu conosciuto ed apprezzato fuor dei confini, lo fu, quasi esclusivamente, nel suo nome.

Ben diverso il caso di Bracco da quello di Sem Benelli, riproposto recentemente con La cena delle beffe. Rimasto in sospeso dopo  l’intolleranza fascista – limitata, a vero dire, più che altro a motivi di puntiglio provinciale – venuti i tempi che avrebbero dovuto portare naturalmente all’obbiettiva revisione e alla corrispondente collocazione storica, non ci si è dati neanche la briga di respingerlo, il che sarebbe stato, bene o male, pur sempre un giudizio responsabile e orientativo: s’è continuato ad ignorarlo.

Eppure, sebbene con tanta minor coerenza e maggior divario di risultati, volenti o nolenti, riportato ai tempi, il suo è stato un repertorio di rischio, di provocazione e di urto non meno di quello di Pirandello. Otto volte su dieci, soccombente alla prova del  linguaggio, d’accordo; ma è per la prima volta, con lui, che, sia pure tumultuosamente, irrompono sul nostro palcoscenico temi ideali, imperativi morali, istanze sociali, esigenze espressive, curiosità, aperture ed interessi fino allora sconosciuti. Si potrà dire che a una natura appassionata, generosa e dispersiva come la sua dall’esuberante fantasia partenopea, nutrita di istinto e di sentimento – mal s’addicevano le avventure del pensiero, a rischio continuo di fare una certa confusione fra l’idealismo di Ibsen, il socialismo di Turati e il verismo umanitario e sotto sotto romantico dei meridionali dalle braccia spalancate agli umili e ai diseredati; ma non si può negare che si tratti del primo, cospicuo e, in buona parte, riuscito tentativo di portare il nostro teatro su una posizione e ad un livello europei.

Con Sperduti nel buio per due atti – il primo ed il terzo – si rimane nel filone del realismo regionalistico, dove lo scrittore si muove a suo agio e consegue risultati di sincerità e di colore non indegni di Salvatore Di Giacomo; mentre per un atto – il secondo – ci si addentra per l’insidioso sentiero del teatro di denuncia sociale. Son due mondi contrapposti un po’ schematicamente e scopertamente, in cui la separazione del bene e del male è a netto taglio di coltello; e se l’uno: quell’ambiente aristocratico di egoismo ozioso ed amorale, corrotto dalla ricchezza e dal piacere, dove si seminano bastardi senza preoccuparsi né del loro stato civile né della fine che hanno fatto, risulta superato e di maniera; l’altro, con la formicolante coralità delle sue piccole anime umiliate ed offese, è ben vivo e poetico. Realtà e non realismo, documento redendo dall’arte che lo reinventa nel momento stesso in cui lo fotografa, tolto direttamente da una Napoli miserabile, disperata e tragica, dove la virtù concresce sul vizio e il vizio concresce sulla virtà e finisce per soffocarla; e la colpa di tutto è inafferrabile perché le sue origini sono lontane, estranee e fatali come la eterna ingiustizia del mondo. Nemmeno pensare che possano fare un’eccezione il mansueto, giovane musicista cieco e la fragile e indifesa figlia del peccato, cacciati e mantenuti, senza scampo, nel loro inferno. Sarà un idillio bianco e non potrà durare più di una primavera. Lei finirà, trascinata, quasi senza resistenza, sulla strada vergognosa della prostituzione, assegnatale fina dalla nascita e percorsa già da sua madre. Per lui sarà la sconfortata solitudine nelle tenebre degli occhi e del cuore. E, a quattro passi dal “basso” miserabile dove si consuma l’omicidio morale della fanciulla, nel fasto offensivo del palazzo aristocratico, suo padre, che non sa di esserlo, termina una vita dissipata ed inutile, morendo d’un colpo. Due volti di una diversa miseria: quella materiale e quella morale.

Alla recitazione sofisticata, in grande stile, di Renzo Ricci, ha fatto riscontro quella sincera e semplice di Achille Millo e di Lucia Romanoni, nel quadro numeroso, ben disciplinato dal regista D’Alessandro; dove, fra molti bravi interpreti partenopei, si son fatti notare la Fierro ed il Turco.

Carlo Terron

Ultima modifica il Domenica, 21 Dicembre 2014 20:32
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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