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Corriere Lombardo, 31 maggio 1955

Ancora Colette e ancora una commedia ricavata da un romanzo. Dopo le oramai inevitabili e incivili prevaricazioni della patria censura, faceta lardellatrice di aggettivi e sostantivi, fra i quali, ad esempio, le parole “amante” e “becco” sono state inseguite e cacciate con occhiuto zelo lungo i meandri del copione e finalmente, con domenicana furia, estromesse; dopo avere, riaffermato il monoteismo della nostra santa religione a differenza del politeismo pagano e aver, di conseguenza, portato dal plurale al singolare la parola “dei”, talché la signora Braccini non è più sospetta di eresia dovendo pronunciare la battuta: “l’avvenire è sulle ginocchia degli Dei”, e riafferma invece la sua rigorosa fede cristiana dicendo: “l’avvenire è sulle ginocchia di Dio”; che sarà magari meno riguardoso trattandosi dopotutto di disporre confidenzialmente del grembo di Nostro Signore, ma è innegabilmente ineccepibile dal punto di vista teologico; dopo che la signorina Guarnieri è stata diffidata dal tenere monellescamente le gambe aperte forse per timore che ci possa passar sotto, che so?, un topolino o uno scarafaggio con gli occhi disposti lungo il filo della schiena, a servizio di un temperamento malizioso e nella ingiustificata, quanto offensiva, speranza che la graziosa attrice giovane si sia dimenticata di indossare un ben preciso capo di biancheria intima; dopo essere stata prima autorizzata, poi, al momento di andare in scena, proibita, e quindi nuovamente permessa; e dopo altre marginali amenità, finalmente Gigi è giunta applauditissima anche a Milano ed ha preso domicilio al teatro Nuovo.

Vogliamo ripetere una volta ancora il discorso, fatto e rifatto, sulle aprioristiche pregiudiziali estetiche esistenti fra un’ opera narrativa poeticamente compiuta e la sua riduzione per le scene? Spero di no. Tutto è teatrabile tranne la noia, deve aver detto qualcuno. Deve essere proprio così se sul palcoscenico il successo è sempre riuscito a dar ragione a  delle riduzioni tratte dagli incomparabili romanzi di una narratrice come Colette che, nell’inafferrabilità di un linguaggio incorporeo governato soltanto dal vagabondaggio fantastico di una sensibilità femminile più ancora che libera, anarchica, è la più lontana dalla plastica concretezza del palcoscenico. Amiamo ed ammiriamo troppo la scrittrice per passarle per buoni i suoi copioni. Ma stabilito questo, riconosciuta la degradazione inevitabile nel suo trasferimento dal libro al palcoscenico, dobbiamo poi anche ammettere che quei personaggi e quei casi conservano quel tanto di vitalità, di dinamicità e di suggestione ancora sufficiente a giustificare il loro cambio di domicilio.

Gigi, voi sapete, adolescente amoralmente virginea, futura donna onesta – speriamo! – senza marito, nasce da una vocazione galante mancata, mica, per carità, per consapevolezza e deliberazione morale, e men che meno per educazione ed esempio familiari, ma piuttosto per un calcolo spontaneo, germinato da un misterioso e infallibile istinto femminile, nell’intuizione, vorrei dire biologica, anzi animale, che la carriera ideale di una mantenuta si concreta nella condizione di moglie, e se innamorata meglio ancora. A sedici anni, totalmente inesperta, e in pochi giorni, con la tattica dei contrari, essa riesce ad ottenere quello che le professioniste riconosciute che la circondano non sono riuscite a conseguire in tutta la vita. Questa adorabile e indimenticabile creatura è un esempio – tal quale Colette scrittrice, proprio – di come si possa essere schietti, puliti, innocenti e disinteressati in una zona ancora al di qua del limite ove comincia la vita morale.

Gigi, dunque, incarna tutte le speranze di, come dire?, una dinastia di mondane, residuati della Belle époque quando, da Maxim, si versavano bottiglie di sciampagna dentro ai pianoforti e re in borghese e granduchi moscoviti in divisa avevano tempo di lasciare gli affari di Stato per correre a dissipare fortune favolose a Parigi ai piedi delle vamps del tempo facendo scorrazzare lungo i Campi Elisi Cléo De Mérode e la bella Otero in tiri a sei coi finimenti tempestati di pietre preziose e i plaids di ermellino. In questa, come in tutte le professioni del resto, non esclusa quella di re, c’è chi riesce e chi no. Alice, ad esempio, la prozia della fanciulla, può dire di essere riuscita ed ha perfettamente diritto di esserne orgogliosa. Nella vecchiaia ha potuto conservarsi appartamento lussuosamente ammobiliato, domestico in livrea e gioielli a profusione. È l’aristocratica, l’esempio della famiglia. Nell’ambiente del demi-monde essa è qualcuno. Assai minore la riuscita di madame Alvarez, la nonna; molta buona volontà, ottima conoscenza delle regole della professione, applicazione indefessa, ma assai meno temperamento. L’assenza di stile l’ha rovinata. Decisamente fallita, Andrée, la madre ridotta a fare la comprimaria all’Opéra Comique e palesemente disprezzata dalle altre nel doveroso rispetto all’ordine delle gerarchie.

Queste amabili e simpatiche signore, stavo indelicatamente per dire megere, covano Gigi come le chiocce, la sorvegliano, la controllano, la educano con minuziosità prudente e calcolo esperto per il giorno che sarà pronta ad entrare nella “professione”, badando ai passi falsi e mettendola nelle migliori condizioni più favorevoli di farsi largo nella vita. Gigi nata e cresciuta in quell’ambiente ci si trova naturalmente come un pesce nell’acqua e un uccello nell’aria, tanto naturalmente da non avvertirne nemmeno l’ equivocità. Sa tutto e non sa niente. E poi non bisogna nemmeno dimenticare che c’è anche una specie di onestà delle professioni disoneste. L’occasione si presenta un po’ prematuramente nelle vesti e nel portafoglio di un giovane flaneur ricco sfondato, amante solvibile delle più belle e celebrate cortigiane del tempo, buon amico di casa, in crisi di delusione essendo stato abbandonato dalla titolare in carica; e che ha sempre considerato Gigi  come una bambina capricciosa, impertinente e un po’ sfrontata, con la quale ha soltanto giocato senza venir sfiorato da altri pensieri. Penseranno le vecchie a condurlo abilmente con mosse aggiranti a maturazione e a porre patti chiari e garanzie concrete per la sistemazione della colomba che si preparano ad offrirgli.

Ma Gigi è un disastro. Fa tutto il contrario di quanto le viene insegnato e suggerito; capovolge ogni regola del gioco e dice chiaro e tondo all’amico d’infanzia che non ci sta. Onesta senza saperlo e volerlo essere, sembra mandare all’aria ogni cosa fra la costernazione e la delusione generali. È invece il modo migliore di esasperare il pretendente e metterlo alla disperazione. Anziché in veste di protettore e sovvenzionatore a tempo determinato, pur di ottenere il suo scopo egli finirà col presentarsi con una regolare domanda di matrimonio a impegno stabile. L’esperienza delle tre vegliarde non ha valso l’istinto della acerba nipote. Fatalmente generico e convenzionale, l’ambiente, che è l’elemento più vivo, preciso e originale del romanzo, con quell’aria sfatta che sa di cosmetici e profumi rari mescolati a vago odor di cucina; e uno smalto di mondana eleganza e galante raffinatezza fine secolo disteso su una sostanza fondamentalmente torbida e volgare; i personaggi, invece, nella commedia, riescono a mantenere una estrosa, volubile ed eccentrica vivacità e rendono il copione di per sé un po’ magro, vario, volubile, spiritoso e divertente, senza escludere una vena di umorismo crudele.

E iersera hanno divertito moltissimo. La serata non ha fatto che infilare applausi a scena aperta ad Anna Maria Guarnieri, protagonista deliziosamente sincera anche nei pochi momenti di superficialità, a Rossella Falk e a Lola Braccini, diversissime ma ugualmente stupende nel rendere le due avole dall’opposto temperamento, che costituiscono anche i due personaggi più originali e interessanti del copione; a Romolo Valli d’un umorismo fine e sottile, a Elsa Albani che, senza trascurare certe irresistibili impennate comiche, ha notevolmente sviluppato i lati umani della figura della madre; e, infine, al Ruggeri, lepido domestico. Le scene gustose di Mario Chiari e i costumi arguti ed eleganti di Maria De Matteis, una volta tanto, non hanno prevaricato. Giorgio De Lullo è comparso solo alla fine a condividere coi suoi compagni i molti applausi. È stato, del bello spettacolo, il regista intelligente e spiritoso.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 16 Dicembre 2014 11:09
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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