di Antonio Latella e Federico Bellini
regia Antonio Latella
con Maria Chiara Arrighini, Giulia De Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti
costumi Simona D’Amico, musiche e suono Franco Visioli
movimenti Francesco Manetti, Isacco Venturini
Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa in collaborazione con Stabilemobile
Alla Sala Mercato di Genova Sampierdarena il 15 e 16 aprile 2025
Nonostante tutto il sostantivo che ancora e più di ogni altro sembra costruito sul femminile e sulla donna è ancora 'meraviglia' (nel senso della sua capacità di illuminare), nonostante millenni di svalutazione, costrizione e denigrazione, qualche volta mascherati nella volontà fintamente libertaria di disconoscere una sua specificità, che è l'elemento più dirompente da contrappore alla specificità cui il maschio non ha mai rinunciato, quasi che in questo disconoscimento si nascondesse la volontà di preservare una superiorità innaturale. In effetti meravigliosa è solamente questa doppia specificità, dalla quale si alimentano tutte le differenze che proprio per essere differenti possono ambire non da una impossibile 'indifferenza' ma bensì ad una vera parità. Con Wonder Woman, primo capitolo di un dittico dedicato ai supereroi del fumetto (contemporanea fucina del mito che il mito recupera interpretandolo nella modernità più popolare ma non per questo meno 'intrigante'), Antonio Latella, e con lui Federico Bellini, gettano uno sguardo maschile su questa meraviglia e forse proprio in quanto maschi riescono a marcare una distanza che supera le ideologie per farsi forma di un possibile 'futuro' insieme. La drammaturgia parte dalla realtà storica, uno dei tanti casi di stupro in cui (ricordiamo il primo e dirompente Processo per stupro, documentario militante del 1979 centrato sulla ancora oggi coraggiosissima arringa di Silvia Lagostena Bassi) la vittima è trasformata in colpevole, colpevole proprio in quanto vittima che sulle soglie del rogo si rifiuta di accettare un ruolo in cui non si riconosce. Non vuole la pietà pelosa, non prega ma vuole ciò che è suo diritto. Una percezione, della violenza sulle donne, che persiste nonostante tutti i miglioramenti culturali e legislativi, frutto delle lotte di tante donne come ad esempio Amanda Nguyen che, oggetto anche lei di stupro, è riuscita a far ampliare i tempi di conservazione delle prove mediche, tra l'altro assai invasive, per consentire la loro disponibilità processuale con una legge diventata modello anche per la moral suasion delle Nazioni Unite. Persiste e continua così ad avvelenare i giudizi sociali, magari solo in forma di dubbio, andando a spesso divaricare, tra l'altro, le stesse donne (i giudici del processo cui la drammaturgia si ispira erano infatti tre donne a testimoniare quanto ancora il 'patriarcato', in un ostinato divide et impera, continui a difendere il suo stesso inevitabile declino). Così si ripetono nella cronaca quasi giornaliera analoghe sentenze, l'ultima a Ravenna, che non vogliamo giudicare in sé ma che sono anche il sintomo di una malattia culturale e sociale che culmina nei sempre più numerosi femminicidi. Si parla di donne ma è il maschio il vero oggetto della discussione, o meglio di quella parte del maschile che ancora si aggrappa alle rovine di un pariarcato che alla fine danneggia anche lui, inconsapevole strumentto della sua stessa schavitù intrisa di infelicità. Una schiavitù ed una frattura che solo 'insieme' può essere sanata. Ma ormai la meraviglia del femminile non si fa più imprigionare e così nella seconda molto dinamica parte dello spettacolo, esplode prendendo le simboliche fattezze della moderna amazzone creata nei disegni di William Marston, custode del lazo della verità, simbolo in fondo della capacità del femminile di smascherare l'ipocrisia e la menzogna di cui si alimenta e in cui si rifugia il maschile anche quando grida ai quatto venti le sue migliori(?) intenzioni. È appunto una esplosione di suoni e di colori (e di accuse in quel 'sei tu' reiterato) che la società non riesce più a contenere appieno e dalla quale però ancora si ritira in buon ordine rifiutando di farsi illuminare. Un pacifismo armato, direbbe qualcuno, ma armato solo della propria ragione e, ovviamente, delle proprie ragioni. Così la trasfigurazione del linguaggio scenico diventa una sorta di colpo di frusta estetico, l'apertura ad una energia anche rivoluzionaria che covava come la cenere sotto le perplessità e le assurdità di un procedimento sul punto di spezzare la vittima. La scelta dramaturgica e registica, nell'efficace quadruplicazione dell'unica protagonista, dà dunque il segno che la vittima non è più sola, tanto meno nella sua ribellione. Ottima la prova attoriale delle quattro giovani attrici, così diverse l'una dall'altra come lo sono le fiamme di un unico bracere, sia nella prima parte che nel secondo e più performativo quadro, tra movimenti coreografici di Francesco Manetti e Isacco Venturini e forti sonorità tecno di Franco Visioli. Sono loro stesse (Maria Chiara Arrighini, Giulia De Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti), con il contributo essenziale dei bei costumi di Simona D'Amico, l'attraente scenografia. Uno spettacolo interessante che riesce paradossalmente a superare la sua stessa ineludibile (purtroppo) 'attualità'. Uno spettacolo, inoltre, che è capace di muovere la consapevolezza del pubblico femminile ma anche di quello maschile, quando quest'utimo si impegna e riesce finalmente e felicemente a liberare il suo sguardo. Ospite del Teatro Nazionale di Genova, che ha appena proposto con L'Empireo nell'attiguo teatro Gustavo Modena un'altra drammaturgia di donne, in una Sala Mercato riempita da un pubblico attento e partecipe di ogni età che ha a lungo applaudito. Poi in tournée. Maria Dolores Pesce