Studio per un nuovo spettacolo
di e con Danio Manfredini
collaborazione di Vincenzo del Prete
produzione La Corte Ospitale
eUROPA tEATRI, Parma – 8 febbraio 2014
L'interrogazione sul Senso dell'arte e l'esplorazione dei domini oscuri e inconoscibili dell'ispirazione e della vocazione sono i presupposti che sostengono questo studio per un nuovo spettacolo di Danio Manfredini, presentato per la prima volta la scorsa estate a Sant'Arcangelo.
Attraverso un'ispezione poetica di grande suggestione, l'interprete rivive, dando corpo, voce, passi - instabili - e maschere, alcune delle più acute ricognizioni drammatiche sul tema della storia del teatro occidentale. Su un palcoscenico vuoto, non fosse per qualche sedia, un comodino ed un'asta microfonale, ad immagine e somiglianza di un camerino spoglio, immerso nell'oscurità, squarciata da fasci di luce che illuminano l'attore, Manfredini rievoca i passaggi letterari che hanno sondato il significato implacabile e misterioso della vocazione teatrale (e più ingenerale artistica, intesa come afflato insopprimibile verso l'assoluto e l'oltre, nonostante tutto). Si materializzano, sgusciando fuori dal buio per pochi minuti, baluginanti scaglie di resistenza ad una realtà in cui sembra azzerata la possibilità d'esistenza della bellezza: dal Parsifal di Mariangela Gualtieri a Testori (Conversazione con la morte), dal disperato Bernhard (Minetti. Ritratto dell'artista da vecchio) al tragico Čechov (Il canto del cigno), fino alla lezione di Amleto agli attori e ad una riflessione sul proprio operato d'artista, con frammenti da Tre studi per una crocifissione (1992).
In poco meno d'un'ora l'attore scandaglia con inaudita e composta forza l'itinerario accidentato della vita dell'artista, costantemente in bilico sulla faglia impercettibile che separa beatitudine e dannazione, rendendolo familiare alla disperazione come all'esaltazione, votato – in ogni caso - all'eterna contrapposizione manichea tra il trionfo dello scacco e la rovina della gloria, in un operato sempre e comunque mai finito, sempre e solo provvisorio, anche quando all'apice della perfezione. Sull'inconciliabile natura di questi ossimori s'innesta l'ulteriore vexata quaestio se l'arte implichi o meno la rinuncia alla vita: il dialogo cecoviano, di silenzioso lirismo pervaso, sembra suggerirlo. Limpido è però un pensiero: la vocazione è la sola via alla conoscenza concessa agli uomini e per questo, per chi la possiede e la coltiva, è irrinunciabile.
I tasselli della commovente indagine poetica di Manfredini, raccordati con maestria e giocati sull'alternanza di buio e luce, sono una confessione del teatro su sé stesso: è il teatro stesso che ci parla, che scandaglia e rivendica la propria tormentata condizione di mediatore di verità, bellezza e salvezza attraverso la rappresentazione e la parola.
Sulla consapevolezza di tale potenzialità e della responsabilità misteriosa di cui l'artista è custode e garante, si chiude questa gemma preziosa, che riluce sul fondo di una miniera oscura – il presente, depauperato di speranza, di autentica vocazione di senso.
Nell'attesa di poter assistere presto al compimento di questo studio, rimane la consolazione, che solo la bellezza sa infondere, che anche in tempi di forsennata negazione e mistificazione del valore dell'arte, essa sappia sopravvivere, incuneandosi negli interstizi più nascosti della realtà, e tramandarsi all'avvenire, attraverso l'abnegazione ed il dono totale di sé, che è ciò che qualifica gli artisti.
Giulia Morelli