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ULTIMO NASTRO DI KRAPP (L') - regia Robert Wilson

L'Ultimo nastro di Krapp L'Ultimo nastro di Krapp regia Robert Wilson

di Samuel Beckett
Regia, scena e ideazione luci Robert Wilson
Costumi e collaborazione alla scenografia Yashi Tabassomi, Disegno luci A.J. Weissbard, Disegno suono Peter Cerone / Jesse Ash
Un progetto di Change Performing Arts
commissionato da Spoleto52 Festival dei 2Mondi e Grand Théâtre de Luxembourg
prodotto da CRT Artificio, Milano
Spoleto52 Festival dei 2Mondi 28, 29 giugno 2009
Napoli, Teatro Mercadante, dal 22 al 24 ottobre 2009
Roma, Teatro Valle, 10 e 11 ottobre 2010

www.Sipario.it, 12 ottobre 2010
Il Mattino, 24 ottobre 2009
Giornale di Sicilia, 2 luglio 2009
Addio all'amore

Roma, Teatro Valle, 10 e 11 ottobre 2010

Commissionato dal 52° Festival dei 2 Mondi di Spoleto e dal Grand Théâtre de Luxembourg, L'ultimo nastro di Krapp è la più recente apparizione di Robert Wilson come attore (la penultima, ormai, risaliva al 2000 nei panni di Hamlet: a monologue). Scritto per l'attore irlandese Pat Magee, il testo che debuttò a Londra nel 1958, al Royal Court Theatre, è arrivato al Teatro Valle di Roma, dove, fino al 24 ottobre, ha avuto avvio la prima delle monografie di scena ideate dall'ex Eti. Nel suo atto unico Samuel Beckett incornicia, con straordinaria economia di parole, il fallimento di un'intera esistenza umana.
Squarciato da tuoni terrificanti tessuti di abbaglianti saette, alternate a penombre inquietanti, Krapp è da solo davanti al suo magnetofono. Come per ogni suo compleanno, non sa rinunciare all'abitudine di riascoltare le vecchie bobine registrate da giovane e inciderne una nuova: un singolare diario dettato a se stesso con cui dialogare e confrontarsi costantemente. Questa però è un'occasione speciale. Krapp, consapevole della fine, sa che è il suo ultimo nastro. Vaga senza meta tra i luoghi della memoria. A tratti qualcosa lo inquieta, fa fatica a riconoscersi e, ossessivamente, schiaccia il tasto per tornare indietro e riascoltare sempre lo stesso passaggio: uno scontro tra l'entusiasmo disincantato di trent'anni prima e l'amaro disincanto di oggi.
Nella spettrale e geometrica stanza-archivio disegnata da Wilson, la voce di Krapp, con il viso ricoperto di biacca e un paio di calze rosse, si sgela e diventa silenzio. Il Krapp di Wilson, attore e regista calamitante, con gesti concentrati e dilatati nel tempo, trascende il singolo personaggio, mascherandosi da metafora di un destino che pare attendere ciascuno di noi.
Luci rigorose e rumori amplificati danno corpo alle macerazioni emotive taciute. È tardi per guardare indietro; non rimane che naufragare nell'impossibilità di essere felici.

Cosimo Manicone

Bob Wilson fra Beckett e il Kabuki

Il Krapp di Beckett è (giusta la didascalia iniziale) «un vecchio sfatto», quello di Wilson un vecchio rifatto: al posto della «faccia bianca» ha una sorta di maschera calcificata, al posto dei «capelli grigi in disordine» una sorta di calotta d'un rossiccio eclatante, con una scriminatura a sinistra tanto diritta e affilata che pare disegnata con la riga. E se gli unici rumori fuori scena previsti da Beckett sono gli schiocchi e il tintinnio contro il bicchiere delle bottiglie sturate da Krapp, qui Wilson rovescia sulla stanza del vecchio un'autentica tregenda di tuoni, lampi e pioggia, amplificati sino al punto di risultare dichiaratamente falsi. Insomma, l'allestimento de «L'ultimo nastro di Krapp» con cui la Change Performing Arts ha aperto la stagione del Mercadante, si fonda sull'artificialità programmatica. E con ciò Robert Wilson - nella circostanza interprete oltre che regista - sul serio invera quello che, nel recensire il suo primo spettacolo, «Deafman Glance», scrisse di lui Ionesco: «Wilson è andato più lontano di Beckett». Basta, in proposito, analizzare brevemente il testo. L'atto unico in questione, come sappiamo, porta alla ribalta un vecchio che, ascoltando la registrazione di un suo «diario» (e a tratti interagendo con essa), si confronta disperatamente col proprio passato. Ma, ben oltre il plot, Krapp non è che un naufrago dell'insignificanza esistenziale: e se pure cerca di esorcizzarla attraverso le parole (vedi la puntigliosità con cui va a cercare nel dizionario se sia meglio dire «vedovezza» o «vedovanza»), son sempre parole che strenuamente - per evitare l'espediente consolatorio di travestire con i concetti (e quindi con l'ideologia) quell'insignificanza - s'aggrappano all'unica certezza possibile: tendono, cioè, a «tramutarsi» in cose e, in particolare, a identificarsi con il corpo e le sue funzioni, prima fra tutte (vedi le banane ripetutamente tirate fuori dai cassetti) quella del cibarsi. Avete capito, allora: l'artificialità messa in campo da Wilson mira a cancellare anche il superstite conforto suggerito dall'innocenza della natura. E in quanto interprete, poi, il grande texano si riferisce al Kabuki, non a caso scegliendo, fra i due principali stili di recitazione in uso al suo interno, non il «Wagoto», connotato dal realismo sentimentale, ma l'«Aragoto», caratterizzato, al contrario, da dizione e movimenti estremamente formalizzati ed esasperati. Eppure, «il mago di Waco», come lo chiamò Heiner Müller, compie alfine il miracolo: col suo ultimo sguardo il vecchio Krapp - eunuco indomito in un harem di fantasmi - sembra vedere, nella polvere lasciata sul mondo dal tramonto delle fedi, il pulviscolo d'oro di una rinnovata fratellanza.

Enrico Fiore

SPOLETO (gi.gi.).- Racconta Bob Wilson, quando 35 anni fa mise in scena Una lettera per la Regina Vittoria, che con sua sorpresa andò a trovarlo nel camerino nientemeno che Samuel Beckett in persona, facendogli i complimenti per il testo "frammentato e non sequenziale". Da allora Wilson pur avendo in mente di rappresentare i lavori del grande drammaturgo irlandese non lo fece mai. Adesso addirittura, per il 52° Festival di Spoleto, spara una doppietta, curando la regia di Giorni felici e autodirigendosi in L'ultimo nastro di Krapp calandosi lui stesso nei panni del paradigmatico personaggio. Per il quale sin dall'inizio è chiaro il suo singolare disegno scenico: piazzando al centro un tavolo col magnetofono su cui cala una luminescente lampada, alle spalle un armadio tipo griglia portavalori, ai lati due basse scaffalature su cui sono adagiate un'infinità di cassette portabobine e in alto tutt'intorno una sfilza di finestrelle rettangolari, da far somigliare l'insieme ad una sorta di bunker o d'un cantinato per vivisezioni. Wilson ha il viso biaccato di bianco, un vampiro quasi, i capelli neri appiccicati in testa somigliano ad una calotta plastificata, ha, come da testo, un panciotto da cui a volte estrae un orologio da taschino e non calza scarpe n°48 ma delle pantofole con calze rosse. Lo spettacolo inizia con un boato che squarcia la scena e sino a quando non profferirà verbo, ovvero per una ventina di minuti, Wilson si muoverà al rallenti come un automa, non disdegnando piroette e leggeri passi di danza e si udranno continui scrosci d'acqua piovana misti a roboanti e minacciosi tuoni, come può accadere nei film del genere horror. Il personaggio non se ne da cura, preso com'è dal festeggiare il suo 70° genetliaco, a stappare bottiglie di champagne dietro quell'armadio, mangiare eroticamente banane a vista e tornare indietro negli anni ascoltando dal registratore i suoi anni più gagliardi. Solo schegge e frammenti invero, perché Wilson-Krapp interrompe il nastro e lo piazza lì dove può ricordare la sua infanzia e i suoi amori contrastati compresa la relazione con la sua Effi, soltanto un "vecchio scheletro di puttana". E quando inizia a parlare, in inglese con sottotitoli in italiano, smette ogni rumore, cercherà la bobina numero tre chiamandola spool, che qui sembra un ululato voluttuoso, la sua ironica voce dai toni bassi somiglierà a quella artefatta dei peggiori ceffi di tante gangster-story americane, mentre quella registrata su nastro sarà accompagnata da suoni gutturali di rifiuto, risate gracchianti e borbottii misti a borborigmi. Uno spettacolo sublime di sessanta minuti, in cui Krapp dirà che sono passati forse i suoi anni migliori che tuttavia non li rivorrebbe indietro e che sarà salutato al Teatro Caio Melisso da calorosi applausi e ovazioni interminabili.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Domenica, 11 Agosto 2013 09:56

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