martedì, 18 marzo, 2025
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ULTIMA PAROLA (L') – regia Lea Barletti e Werner Waas

"L'ultima parola", regia Lea Barletti e Werner Waas. Foto Paolo Costantini "L'ultima parola", regia Lea Barletti e Werner Waas. Foto Paolo Costantini

di Barletti/Waas
Testi: L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett e Finché il giorno non vi separi di Peter Handke
un progetto di Barletti/Waas
con Lea Barletti e Werner Waas
regia Barletti/Waas, sound design e musiche originali eseguite dal vivo Luca Canciello
scenografie Ivan Bazak, light designer Andrea Torazza, consulenza luci Pasquale Mari
assistente alla regia Paolo Costantini
Produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse, Barletti/Waas, TPE – Teatro Piemonte Europa, Florian Metateatro e con il sostegno di CSS / Dialoghi, Residenze delle arti performative a Villa Manin, TD-Berlin e Itz-Berlin
Alla Sala Trionfo dei teatri di Santagostino del Teatro della Tosse di Genova, dal 12 al 15 febbraio 2025

www.Sipario.it, 15 febbraio 2025

Ha ragione il teatro o ha ragione la vita? Sembra questa la 'questione' che anima lo spettacolo di Barletti/Waas, ospitato e coprodotto dal Teatro della Tosse di Genova, una questione che anima lo spettacolo e anche lo agita a partire da un altro, ovviamente paradossale e retorico, interrogativo che tale questione presuppone: esiste la Vita al di là o senza il Teatro ovvero esiste il Teatro al di là o senza la Vita?

È una questione la cui risposta è non avere una risposta in quanto in questa stessa assenza di risposta riposa il suo significato, il senso 'dell'assenza di senso' beckettiana, cioè, rivisitato e trasfigurato nella bellezza dell'andare oltre il senso, nei momenti in cui si riesce a farlo, per riposare al di là della contrapposizione, che è solo 'rappresentazione', tra il reale e l'irreale. In fondo L'ultima parola è che non c'è un'ultima parola.

Lo spettacolo del famoso duo italo/tedesco accosta due testi, L'ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett e Finchè il giorno non vi separi di Peter Handke che del primo è coscientemente una 'eco', mettendo così a confronto/contrasto, nella medesima oscura e atemporale esistenzialità, una rappresentazione drammatica (il Teatro nel 'non senso' beckettiano) e la sua traduzione/transizione lirica, nella quale la misteriosa donna evocata nel e dal nastro di Krapp prende su e da se stessa la parola, e la rivendica oltre la morte che la possiede ed in cui ha trovato la sua sostanza e la forza per esprimersi.

È come se in questa eco femminile il tridimensionale e insensato personaggio beckettiano trovasse quella quarta dimensione estetica di cui ha bisogno per esistere oltre la sua mancanza di senso, nella lirica immediatezza di una accettazione di sé, del sé individuale che esiste psicologicamente ed ontologicamente prima di ogni sua significazione esistenziale.

Lo strumento di questa accettazione di sé alla fine non è che l'immaginazione, il luogo condiviso tra Vita e Teatro che dà dunque ragione all'una e all'altro, insieme o in contrapposizione.

Così come la donna senza nome sembra pertanto riscattare il 'non senso' esistenziale e metafisico dello scrittore-drammaturgo Krapp (“E come è potuto accadere? Perché, contrariamente agli altri uomini, tu mi hai lasciato la mia parte di notte, mi hai concesso il mio centro, e con tutti i tuoi segni, oh quanto luminosi, non sei mai arrivato alla mia oscurità, non hai mai attentato ai miei sogni?”), così Handke offre a Beckett tra i canneti una sponda di senso, un senso che sta forse proprio nell'abbandonare gli altri per salvarli da sé stesso.

È necessario per questo, però, restare al Teatro e salvaguardare l'oscurità del Teatro perché L'ultima parola è anche un discorso sul teatro, sul suo essere alla fine eco indispensabile della Vita per interpretare l'uno e l'altra, l'uno nell'altra e viceversa.

Così quando il claustrofobico e insensato Krapp di Werner Waas ha terminato il suo dialogo con il registratore e con il Tempo, chiuso con gli spettatori sul palcoscenico, spogliandosi del suo costume di scena, e il sipario cade, allora la 'donna senza nome' di Lea Barletti prende la parola dalla platea vuota, sorta di sarcofago da cui emergere alla contingenza, per illuminare d'oscurità quel luogo (il palcoscenico) ormai abbandonato a sé stesso.

E quella parola ci dice proprio che nonostante tutta l'insensatezza del nostro esistere possiamo ancora percepire nella nostra umanità qualcosa di irriducibile, un essenziale che non siamo in grado di significare ma che siamo in grado di assorbire.

Quello messo in scena dai due, con l'importante ausilio della bella musica dal vivo di Luca Canciello, è uno spettacolo (i due testi, quello di Beckett del 1958 e quello di Handke del 2007, furono rappresentati insieme la prima volta da Christophe Perton nel 2008) profondo, intenso e talora perturbante, creativamente enigmatico nel senso etimologico per cui l'enigma è la risposta stessa a noi affidata per essere svelata, è la verità nella sua forma più sincera e umana.

Werner Waas è geniale nel caricarsi fisicamente di quel moto di allontanamento dalla Vita che è la paradossale essenza vitale del personaggio, il quale che rinuncia non solo alla Vita ma anche, per poter vivere, rinunzia soprattutto a sé stesso trasfigurandosi in quel costume rigido come una corazza stretta tra enumerazioni e reiterazioni ossessive, quasi non esista altro modo per rintracciare e ri-tracciare la propria esistenza.

Una corazza che è come un bozzolo di cui si libera per approdare, nella sua nudità di attore, alla oscurità che lo circonda e che così improvvisamente si illumina delle luci che solitarie provengono, in questo spettacolo doppio e ribaltato, dalla platea in cui Lea Barletti finalmente fa parlare l'enigma di quella donna, di quella barca, di quel canneto che l'ultimo nastro di Krapp custodisce affinché venga rivelato.

Che sia una (la) donna a rivelarlo è quasi metafora del parto, simbolo di quel ventre matericamente creativo da cui scivolano creature destinate alla morte che però mai vengono completamente abbandonate.

Sono bravi entrambi ad essere insieme dentro e fuori i loro due personaggi, passando così dall'oscurità immaginifica dell'uno alla luminosità apparente (che 'appare' cioè dalla oscurità dell'immaginazione) dell'altra, e dunque transitando felicemente e sinceramente i confini, appunto labili, tra Vita e Teatro, tra la realtà e la sua ineludibile e mimetica rappresentazione.

Nella sala Trionfo, tra palcoscenico e platea, dei Teatri di Santangostino della fondazione Luzzati-Teatro della Tosse di Genova, anche questa volta meritevolmente aperto al mondo che sta oltre la 'provincia', e che dal 12 al 15 febbraio ci regala un percorso dentro il Teatro e il suo enigma accompagnandoci direttamente sul palcoscenico su cui il Teatro si accende.

Spettacolo per cinquanta spettatori pronti ad ascoltare la voce riflessa da un registratore, alla fin fine uno spettacolo latamente anti-economico o come direbbe Grotowski 'povero' in quanto capace di rifiutare ogni prestito a usura del proprio sé.

Alla prima esauriti tutti i limitati posti a disposizione. Il pubblico eterogeneo ha ben applaudito superando ogni sconcerto.

Maria Dolores Pesce

Ultima modifica il Sabato, 15 Febbraio 2025 18:16

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