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TEMPESTA (LA) - regia Andrea De Rosa

La tempesta La tempesta Regia Andrea De Rosa

di William Shakespeare
adattamento e regia: Andrea De Rosa
con Umberto Orsini, Flavio Bonacci, Rino Cassano, Francesco Feletti, Carmine Paternoster, Rolando Ravello, Enzo Salomone, Federica Sandrini, Francesco Silvestri, Salvatore Striano spazio scenico: Alessandro Ciammarughi, Andrea De Rosa, Pasquale Mari
scene e costumi: Alessandro Ciammarughi
luci: Pasquale Mari, suono: Hubert Westkemper, musica: Giorgio Mellone
Napoli, Teatro San Ferdinando, dal 20 al 25 ottobre 2009

Corriere della Sera, 1 novembre 2009
Il Mattino, 22 ottobre 2009
Orsini, stridulo Prospero

A scorrere i programmi dei nostri teatri stabili e privati (i maggiori) c' è da mettersi le mani nei capelli. Verrebbe voglia di dar ragione al ministro Renato Brunetta, se non fosse che le sue proposte sarebbero anche più disperanti. Ma dalla disperazione (prevedibile) alla realtà (a venire) le cose non cambiano, neppure ai piani alti. Sono alle porte 4 Shakespeare, per i nostri registi l' autore più impraticabile. In Italia chi è in grado di affrontarlo? Ed ecco invece annunciati un Otello di Arturo Cirillo, un Sogno di Massimiliano Civica, un Mercante di Venezia di Luca Ronconi e, bello e pronto, La tempesta di Andrea De Rosa. Prodotto dall' Ert e dallo stabile napoletano, si trattava di una proposta interessante: De Rosa i suoi tre precedenti spettacoli non li aveva sbagliati, neanche uno. Quale più, quale meno, sembravano piuttosto innovativi, o inventivi. Ma, lo ripeto, con Shakespeare non si scherza. Tanto meno con La tempesta, che offre il destro, se la si ha, alla fantasia la più sbrigliata. C' è un' ultima edizione di Antonio Latella, che non ho visto (Prospero era interpretato da un' attrice). Ricordo una penultima edizione, di qualche anno fa, con la regia di Dominique Pitoiset e, come eccellente protagonista, Paolo Bonacelli: ma anche in quel caso, nonostante gli apporti d' oltralpe, non si usciva dalla prevedibilità. In quanto a De Rosa, ad apertura di sipario, egli fa di tutto per essere fedele a se stesso, ossia per farci gridare al miracolo. Si tratta, però, di un miracolo che dura un minuto. Mettiamo a fuoco la scena e la faccenda finisce lì. Al centro di uno spazio semicircolare c' è un letto. In camicia da notte bianca (la vediamo dai piedi) vi è sdraiata Miranda, la figlia di Prospero. Dietro questo letto, come ne fosse una cornice, troneggia una sezione di rosso sipario. Tutt' intorno vi è della sabbia, su cui si scorgono, piegate a terra, delle ombre, uomini che intuiamo essere naufraghi della tempesta procurata dal vendicativo Mago. Ma Prospero è davvero vendicativo? Alla fine si vedrà che così non è. Egli fu detronizzato dal fratello Antonio, uno dei naufraghi; ma si accontenterà che il regno (il ducato di Milano) gli sia restituito. Non voglio però entrare nella dinamica del testo (rispetto ai libri-metafora dal Duca tanto amati, il regno non è il regno di questa terra ecc.). Non ve n' è motivo. De Rosa non ce ne offre neppure uno, se non il primo, molto ovvio: tutto è simultaneo, come in un sogno (benché La tempesta sia celeberrima per un' altra simultaneità, quella della durata reale e della durata fittizia). La verità è, sospetto, che si trattava di offrire a Umberto Orsini l' occasione di misurarsi con un altro giovane regista, anzi con un altro giovane fenomeno: dopo Pippo Delbono, ecco De Rosa. Ma anche De Rosa, che aveva mostrato una certa indipendenza dalle logiche di mercato, nell' operazione di coniugare esigenze produttive, probabilmente pensate da altri, e nientemeno che Shakespeare, fallisce miseramente. Non solo fallisce. Presenta uno degli spettacoli più inerti degli ultimi tempi. Ha un bel dire Orsini che il suo cappotto e il suo bastone e quel suo essere sempre inclinato da un lato, come fosse un grande vecchio, daranno a Shakespeare il colore dell' attualità, il colore di Beckett. Così non è. O ciò non vuol dire nulla. Egli è viceversa un mai credibile Prospero, un Prospero ad alta voce e stridulo. Mai un attimo di vera malinconia, mai quella serena disperazione che è così propria del suo grande personaggio.

Franco Cordelli

Tra cielo e terra nella «Tempesta» dei fantasmi

Lo ripeto ancora una volta. Io sono stato sempre convinto che la chiave (o, almeno, una delle chiavi) per afferrare il senso profondo de «La tempesta» - l’ultima opera di Shakespeare, in cui la poesia risuona più alta e misteriosa perché nasce dalla coscienza che sta per spegnersi e, quindi, spasima sul confine del silenzio - ce la offrano due passi di «Andrea o I ricongiunti», il grande romanzo (non a caso) incompiuto di Hofmannsthal. Ecco il primo: «In quel che c’è di più singolo, particolare, si compie il destino, in quel che c’è di più particolare risiede la forza. Nulla di ciò che deve operare magicamente è in alcun modo vago, generale, ma qualcosa di estremamente singolare, di quel preciso momento». E questo è il secondo: «La vera poesia è l’arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare - soltanto se separiamo noi viviamo veramente - se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile». Infatti, «La tempesta» è un autentico rito sapienziale. E il suo sacerdote, Prospero, fa proprio ciò che auspica Hofmannsthal. Egli aveva voluto unire il Tutto: il cielo e la terra, l’anima e il corpo, l’arcano e il quotidiano. E tanto nell’illusione - l’illusione eterna dell’uomo, quella che sarà anche degli «eroi» pirandelliani - di poter imprigionare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per l’appunto separati l’uno dall’altro, in una forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile. Ma Prospero riesce a ritrovare la propria dimensione umana, e quindi a vivere davvero, solo quando spezza la sua bacchetta magica e dà l’addio agli spiriti e ai folletti: solo quando, cioè, tocca l’estrema saggezza, ch’è quella, giusto, di separare l’umano dal divino. Sarebbe necessario, dunque, considerare la «trama» del Bardo come riferita a qualcosa che è già avvenuto. E rispetto a tutto questo Andrea De Rosa - regista dell’allestimento de «La tempesta» che ha aperto al San Ferdinando la stagione dello Stabile - mette in campo invenzioni pregnanti. Intanto viene stabilita una separazione anche temporale fra Prospero (un intellettuale smarrito di oggi, vestito d’un logoro cappotto) e gli altri personaggi (vestiti di ordinari costumi seicenteschi); e un’ulteriore cesura si determina fra quei personaggi e Miranda, poiché gli stessi compaiono ad uno ad uno, intorno al letto della ragazza, come fantasmi del passato arrivati a popolare i suoi incubi. Inoltre, qui Ariel è un vecchio, e sale e scende, appeso a due funi, lungo un drappo rosso che - simbolo visivo della fuga in un mondo superumano che connotò i «romances» dell’estrema fase creativa di Shakespeare - si perde in alto al di là dell’arco scenico. Sarà libero solo quando smetterà l’andirivieni fra il Cielo e la Terra e, sganciatosi dalle funi, sceglierà definitivamente la Terra. E che dire del trasformarsi di quel drappo in un vero e proprio sipario? Non è forse il sipario che, a teatro, separa la realtà dalla finzione? Al centro di tutto questo, il Prospero di Umberto Orsini (pur intralciato da qualche sussurro troppo sussurrato) è un grumo di lucida sofferenza scavato in uno stile adamantino. E fra gli altri segnalerei almeno Rolando Ravello (Calibano), Rino Cassano (Ariel) e Francesco Silvestri (Alonso). Ma perché (fra l’altro è una pratica abusata, l’adottò anche Glauco Mauri già undici anni fa) l’immissione di quel brano della traduzione in napoletano di Eduardo? Perché si recita nel teatro di Eduardo?

Enrico Fiore

Ultima modifica il Lunedì, 23 Settembre 2013 07:12

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