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TEMPESTA (LA) - regia Roberto Andò

"La Tempesta", regia Roberto Andò "La Tempesta", regia Roberto Andò

di William Shakespeare
Traduzione: Nadia Fusini  
Adattamento Roberto Andò e Nadia Fusini  
Regia di Roberto Andò
Scena: Gianni Carluccio  
Musiche originali: Franco Piersanti  Flautista: Roberto Fabbriciani
Light designer: Angelo Linzalata   Suono: Hubert Westkemper   Costumi Daniela Cernigliaro
Interpreti: Renato Carpentieri, Giulia Andò, Filippo Luna, Vincenzo Pirrotta,
Paolo Briguglia, Fabrizio Falco, Paride Benassai, Gaetano Bruno
Collaborazione artistica Alfio Scuderi  
Aiuto regia Luca Bargagna   Assistente ai costumi Agnese Rabatti    
Produzione: Teatro Biondo Palermo    
Di scena al   Teatro  Vascello di Roma  dal 16 al 20 gennaio (e in breve tournée)

www.Sipario.it, 18 gennaio 2020

La Sicilia e il "trapassato" incantesimo di  Shakespeare

Nessuna divagazione cerebrale, nulla di intellettualmente sofisticato o artefatto,  in questa “concreta”, volutamente s.nobilitata edizione de “La Tempesta” shakespeariana, agilmente tradotta da Nadia Fusini e diretta da Roberto Andò (quasi agli opposti estetici della recente edizione di Luca De Fusco, protagonista Eros Pagni). 
Basica, impetuosa, materica, nelle migliori accezioni e intenzioni (di regia), la trascrizione di Andò evidenzia subito quel che a noi sembra il suo  nucleo concettuale: non la perdita, ma lo smottamento, il volontario esilio da ogni forma di autorità e potere. Dinanzi ai limiti che ad essi impongono il trascorrere del tempo, la senescenza sapiente, i dissidi di corte e dinastie, le brame di estromissione per beghe di successione e visibilità  verso chi viene considerato potenziale o nuovo “suddito”. In ogni epoca e latitudine e ad espansione massiva, “sino alla radice d’ogni singolo pensiero” (Orwell)
Quale è infatti la precipua “colpa” del Duca di Milano, se non avere sostanzialmente rifiutato, riparando verso un visionario “altrove” (simile quindi a re Lear) le intuìte,  larvate minacce di nuovi sovranismi antiumanitari, oscurantisti, tendenti all’ordalìa e al “genocidio” ecologico di madre natura?
L’ultimo capolavoro del Bardo è indubbiamente fra le sue opere che meglio agevolano  la meditazione  sulle le vanità umane e sull’utilizzo scervellato di ricchezze, desiderio, potere, che “non sono esclusivo patrimonio di un solo uomo” – come  bene intuisce il l’orgoglioso Mago Prospero, padre putativo della prima  “isola che non c’è”, alto governante  di incantesimi, metamorfosi,  sovrannaturali fattezze ed apparizioni. 
Personaggio che Renato Carpentieri, aduso da tempo alle collaborazioni sceniche con Roberto Andò, metabolizza e fa proprio nella foggia ed interiorità di una tempesta “irremovibile ma rigenerante”,  che ha luogo e tempra nella vivida anima di un insofferente pensatore meridionale rinvigorito dal saper gestire “un laboratorio di fantasie e di antiche alchimie in forma cartacea e libresca”. Nella magia disperata di un nosocomio che è asylum (claustrale) di personaggi reietti ma geniali, fra corsie ospedaliere che (causa la trascuratezza umana) finiscono inondate dai “primi sintomi” dello strutturale cedimento del pianeta.
Impressionismo figurativo che ha l’estro e il sentimento  dell’allestimento scenico di Gianni Carluccio, dei costumi seicenteschi di Daniela Cernigliaro, delle luci ben dosate di Angelo Linzalata, delle nenie o irruenza musicali di Franco Piersanti. Donde, Roberto Andò ha modo di  evincere  un suo poetico paesaggio surreale, un fantomatico ma sostanziale habitat (dall’aria retrò)  dove qua e là, sparsi per la stanza,” i libri di Prospero, raccontano i fasti di un tempo migliore”.
Personalmente non mi difficile identificare in una ‘trapassata’ Sicilia, l’isola del Mediterraneo in cui Shakespeare potrebbe avere ambientato il suo dolente ma solenne congedo dal Teatro -  rimarcando la difficile condizione dell’  “attore”  qui costretto (tutti costretti) a  sguazzare  in  stivali di gomma, tra schizzi e spruzzi che sono allegoria  dei “disordini delle loro anime”,  senza i cui requisiti  non sarebbe possibile l’arte singolarissima dell’   “incarnare” un altro a te ignoto. All’insegna di una bianca tela  che-  secondo  il regista - “è un muro immaginario che ci costringe a essere doppiamente spettatori, interni ed esterni”:  ostaggi di un perenne saliscendi   cui non è estranea-aggiugerei- la funzione salvifica    dell’acqua sin dai tempi dell’Arca di Noè, “esplicita metafora –prosegue Andò-  di quanto l’essere umano sia destinato a convivere con le tempeste della propria psiche e offesa coscienza”
La tradizione racconta del come e perché, in questa misterico ed   allusivo lembo di terra circondato dal mare ostile, faccia naufragio  la nave con a bordo il re di Napoli, Alonso, suo  figlio Ferdinando, Sebastiano, il fratello e duca di Milano, Antonio, insieme a vari cortigiani, costretti a “patteggiamento e coesistenza” con il riluttante  Prospero, sua la figlia Miranda, lo spirito Ariel e lo schiavo/monster  Calibano. Dando luogo ad una ennesima, affascinate, persino didascalica ‘favola antica’  in cui domineranno “l’introspezione dei cuori  e i suoi  afflati più sereni”.  Nel formale rispetto di un finale ottimista, ove già si intravede che non tutto è risolto, anzi ben calibrato a riprendere il suo ciclo di asperità e alterchi.
Altissima infine la prova attorale non solo del maiuscolo Carpentieri, ma di tutta la compagnia del Teatro Biondo, da Vincenzo Pirrotta a Filippo Luna (rispettivamente Calibano e Ariel), cui si aggregano, al massimo della resa professionale, la giovane Giulia Andò, l’istrionico ma espertissimo Paride Benassai, i ben collaudati (da lungo corso attorale) Gianni Salvo, Gaetano Brunio, Paolo Briguglia, Roberto Villano.
Spettacolo -rivisitato dalla sua prima stesura del 2018- da vedere senz’altro, se non ora, nella sua auspicata ripresa autunnale.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Lunedì, 20 Gennaio 2020 09:37

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