2 riscritture originali da Shakespeare
di Michele Santeramo/Fabrizio Sinisi
dirette da Gabriele Russo/Andrea De Rosa
scene Francesco Esposito
costumi Chiara Aversano
luci Salvatore Palladino, Gianni Caccia
Sound Designer G.U.P. Alcaro
Tito
di Michele Santeramo
con Andrea Bancale, Roberto Caccioppoli, Antimo Casertano, Fabrizio Ferracane,
Martina Galletta
, Ernesto Lama, Daniele Marino, Francesca Piroi, Daniele Russo,
Filippo Scotti, Andrea Sorrentino, Rosario Tedesco
regia Gabriele Russo
a seguire
Giulio Cesare
di Fabrizio Sinisi
con Nicola Ciaffoni, Daniele Russo, Rosario Tedesco, Andrea Sorrentino
regia Andrea De Rosa
produzione Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini
Roma, Teatro Argentina, dal 7 al 12 maggio 2019
Per il teatro, argomento privilegiato di riflessione è quasi sempre il potere. In un momento storico come il nostro, in cui è difficile individuare chi detiene le redini del comando perché tutto affidato a norme, regolamenti e procedure, sperimentare ciò che l'arte drammaturgica ci mette a disposizione può aiutare a comprendere se il nostro rapporto rispetto al potere è cambiato o no. In tal senso, il dittico Tito/Giulio Cesare, in scena all'Argentina, fino a che punto sperimenta la potenza della metafora?
Due "riscritture". Due adattamenti liberamente ispirati alle opere omonime di Shakespeare. Il Tito rielaborato da Michele Santeramo mostra un personaggio che del potere non sa che farsene. Egli vuole essere una persona normale. Vivere come tutti. Passare inosservato. Avere la forza di non doversi vendicare per un torto subito. Le cose andranno diversamente. Perché, più che sfuggire al comando, sarà impossibile – per Tito – rinunciare ad essere responsabile nei confronti della comunità in cui vive. Poiché è quest'ultima a non volere, a non potere, abbandonare il generale alla sua solitudine.
Il Giulio Cesare di Fabrizio Sinisi, invece, mostra quel che accade a seguito dell'uccisione del tiranno. Gli ideatori e gli esecutori del colpo di stato raccontano non ciò che hanno commesso bensì le conseguenze. Si finisce, così, per scoprire che il potere non coincide mai solo o con la persona o col suo ruolo nella società. Bensì con l'idea del potere che si diffonde fra il popolo. E che continua a sopravvivere anche se gli individui non vi saranno più ad incarnarla.
Potere, quindi, come inevitabile responsabilità. Oppure idea, presenza metafisica che pervade la società in ogni sua struttura, dandole così vita e regolandola a dispetto delle intenzioni dei singoli.
Questa riflessione sulla natura del "politico", Santeramo ed Esposito l'hanno pensata in forma eminentemente moderna. In Tito si è voluto giocare ad un teatro nel teatro che ricorda l'ironia sferzante e beffarda usata da Carlo Cecchi. In Giulio Cesare l'ispirazione al Beckett di Giorni felici e dei suoi scenari apocalittici è netta.
Ferma restando la bravura degli attori, quasi tutti bene in parte nei loro ruoli e senza mai utilizzare stinti clichés, a non convincere sono proprio le ispirazioni delle due riscritture.
L'ironia del teatro nel teatro è, ormai, troppo nota e poco innovativa per stupire ancora. E lo stesso vale per le atmosfere beckettiane. In entrambi i casi, ci si trova di fronte a due modelli classici. Che van benissimo in quanto riferimenti, modelli. Ma che, un bel giorno, bisognerà superare per far tornare a scorrere nuova linfa nel teatro. Come? Qui è il punto su cui riflettere.
Intensa e suggestiva la metafora shakespeariana. Ricca di allusioni. Attenta all'uomo come individuo e come essere sociale. Tito/Giulio Cesare, queste "riscritture originali", hanno offerto belle riflessioni sul tema del potere. Ma la potenza del simbolo, quella sua straordinaria ambiguità: tutto questo dov'è?
Pierluigi Pietricola