con Gábor Fábián, Karoly Hajduk, Péter Jankovics, Pal Karpati, Daniel Kiraly, Lóte Koblicska, Nike Kurta, Kata Petö, Nora Rainer-Micsinyei, Zoltán Szabó
e con l'Ensemble Attori Teatro Due - Paola De Crescenzo, Francesco Gerardi, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Nanni Tormen
scenografie e costumi Juli Balázs
luci Tamás Bányai, musiche e suoni Gabor Keresztes, media design Andràs Juhasz e Gabor Karcis, direttore della fotografia Daniel Balint, coordinatore tecnico Zsolt Balogh, foto e grafica Gergo Nagy, relazioni coi media e web Zsofi Rick,
drammaturgia Tamas Turai, Julia Robert, interprete e drammaturgia Anna Veress, assistente alla regia Andrea Pass, organizzatore Peter Toth, responsabile di produzione Ildiko Sagodi
regia di Viktor Bodó
produzione Szputnyik Shipping Company con Schauspielhaus - Graz, Staatstheater - Mainz, Hungarian Theatre of Cluj–Napoca, Centraltheater - Leipzig, Fondazione Teatro Due - Parma, National Theatre – Budapest e con il supporto di European Cultural Foundation (ECF), Union of the Theaters of Europe (UTE), The Education, Audiovisual and Culture Executive Agency (EACEA), National Cultural Fund of Hungary (NKA), Goethe Institut
al Teatro Due di Parma, 2 dicembre 2013
Una sorta di animazione per villaggio turistico radical-chic: così si potrebbe definire Social Error, coproduzione internazionale di Fondazione Teatro Due realizzata con la Szputnyik Shipping Company. L'idea – si legge nelle note di sala – parte dal romanzo 1984 di George Orwell e dai giochi di ruolo, per concretarsi come una sorta di azione performativa che usa come espedienti il linguaggio dell'improvvisazione, le tecniche laboratriali, il teatro del corpo. Ad andare in scena è un gioco di ruolo con l'eliminazione finale di un concorrente dopo l'altro: un po' come Il Grande fratello, un po' come Miss Italia.... Social Error è un format che di volta in volta coinvolge stabili dei paesi coproduttori dell'happening, sospeso fra agitprop e animazione, fra denuncia e gioco. L'inevitabile deriva è verso i reality, o meglio verso una realtà che ha ben superato lo spettacolo che la realtà omologante e anestetizzata vuole rappresentare con la pretesa – forse – di svegliare le coscienze dei singoli presenti in platea. Tutto si svolge sotto gli occhi di una telecamera – che scruta palco e platea deformandone le immagini – l'idea è quella di inventarsi – lì per lì – una comunità, di fare interagire gli attori della compagnia ungherese con quelli del Teatro Due con due livelli di consapevolezza fisica assai disparati: tanto tesi, veri gli ungheresi tanto flosci e finti gli italiani. Social Error si pone come laboratorio di socialità in vitro, laddove la provetta del caso è l'occhio della telecamera e forse il teatro stesso, quale spazio del mettersi alla prova, del giocare sul serio. Non manca – come troppo spesso accade in operazioni simili – la retorica strisciante affidata ai filmati di dittature con sfilate di armamenti e soldati che si contrappongono alla moria per fame dell'Africa o alle condizioni inumane di profughi e degli abitanti delle favelas. In questo mostrare c'è la denuncia degli esiti di una società sbagliata, di quel social error che porta all'inviviblità e al disastro contemporaneo. C'è nella voce fuoricampo che anima e ordina gli attori/giocatori il tentativo di mettere ordine e mettere alla prova il nostro modo di stare al mondo, c'è la volontà di una regia non molto occulta che ha come obiettivo condiviso cancellare le storture sociali, magari frequentando la via dell'indistinto. E per quanto l'invito sia a trovare il proprio spazio, l'invito sia a sentirsi parte di un'esperienza unica : le donne sul palco e gli uomini in platea ad applaudire (tristezza!) alla fine a regnare sovrane sono l'omologazione e la banalità. Il pubblico divertito sta al gioco, fa la cavia contento di mettersi in fila, di applaudire a comando, di imitare gli attori e allora la realtà è andata ben oltre del disastro sociale che Social Error vorrebbe denunciare: lo spappolamento del cervello è irrimediabile, è già palesemente in atto ed è dimostrato nel pubblico che crede di essere eccentrico nel presenziare al rito animativo di Social Error e finisce semplicemente con l'essere tristemente omologato nel suo considerarsi libero pensatore, divertito sbeffeggiatore di quelli che guardano i reality senza accorgersi di essere il riflesso della società che critica. Alla fine si Social Error si esce intristiti dalla pochezza dell'operazione e non solo per la conferma che i nostri attori ne hanno di strada da fare per intensità fisica e presenza scenica se messi a confronto con i loro omologhi ungheresi. Detto questo, viene in mente La Repubblica dei bambini di Teatro Sotterraneo in cui il messaggio sull'omologazione imperante era più o meno lo stesso ma con maggiore spessore e divertito impegno teatrale, ben lontano dalla banalità urtante di Social Error.
Nicola Arrigoni