La cena di Trimalcione
di Renato Giordano da Petronio Arbitro
con Giorgio Albertazzi, Michele Placido e Piero Caretto, Maria Letizia Gorgia
coreografie: Gianni Cantucci, musiche originali: Mario Rivera, Renato Giordano, Gabriele Coen con la collaborazione di Vito Ranucci eseguite dal gruppo: "Satyricon Circus"
scene: Leonardo Conte e Alessandra Panconi, costumi: Mariella Gennarino
regia di Renato Giordano
Festival la Versiliana, 13 e 14 luglio 2007 (prima nazionale)
Renato Giordano nei suoi spettacoli ha tenuto sempre in gran conto le colonne musicali. Sono stati così i suoi storici Fassbinder, i classici, i contemporanei e questo suo Satyricon da Petronio Arbitro in cui oltre ad una divertita regia ha cercato fra i labirinti latini quei suoni che potessero ricostruire lo spirito della Roma antica. E’ venuto così fuori una sorta di musical così come poteva accadere alla corte di Nerone al tempo in cui il suo maestro Seneca si suicidava o quello in cui lo stesso Petronio si sarebbe tolto la vita tagliandosi le vene. Un tempo indubbiamente di decadenza dei costumi in cui spadroneggiavano nobili, patrizi e parvenu arricchiti, i quali una sera sì e l’altra pure erano al centro di orgiastiche feste durante le quali, adagiati di fianco sui triclinii, assaggiavano cibi succulenti e si facevano pascere da lascive donnine, eunuchi disponibili e schiavetti aperti ad ogni licenza erotica, mentre tra una portata e l’altra si sprecavano le danze erotiche (cordaci) e gli interventi canori. Queste atmosfere ha cercato di ricreare Giordano nel suo Satyricon applaudito a più riprese al Teatro greco, affidando in maniera metateatrale il ruolo di Petronio ad un Giorgio Albertazzi a suo agio in quegli ampi drappi bianchi sprizzanti saggezza e ironia. In concreto Giordano nella sua riscrittura ha immaginato che Petronio-Albertazzi potesse scrivere in diretta sulla scena, dettandolo ad una schiava ai suoi piedi, l’episodio centrale del romanzo, quello de La cena di Trimalcione ( che è pure il sottotitolo di questo Satyricon). Una cena in verità molto stilizzata in cui i cibi e lo stesso grande porco caracollato in alto su un piano da alcuni schiavi non odorava di fragranza, anzi sembrava solo un’immagine stereotipata e nulla più. In sostanza mancava in questa cena l’elemento cibo della grande abbuffata, quello che il Trimalcione di Michele Placido nominava solo virtualmente. Un Placido che si esprimeva nel suo slang pugliese, grandioso in tutta la sua cafonaggine, che dava la misura della sua gens arrichita e opulenta, che volendo parlar colto confondeva un episodio dell’Odissea con uno dell’Eneide e che era solo bravo a sbattere ricchezze in faccia altrui e a rendere liberi alcuni suoi schiavetti. La scena rossa-felliniana era di Leonardo Conte e Alessandra Panconi, i costumi (pepli e lunghe tuniche) di Mariella Gennarino, le musiche dal vivo con contaminazioni World di Mario Rivera e Gabriele Coen, le coreografie di Gianni Cantucci e fra i protagonisti si notava la presenza dell’etoile Maximiliano Guerra ed erano gradevoli i racconti di Maria Letizia Gorga (Fortunata), di PietroCarretto (Abinna), Mimma Manca (Seleuco) e Alessandro Parise, Gabriel Zagni, Federica Vincenti e la bella voce di Barbara Eramo.
Gigi Giacobbe
Un «Satyricon» da avanspettacolo
Da un po’ di tempo il teatro italiano, come si sa, si abbevera di cinema e di letteratura all'eterna ricerca di un titolo di cassetta che invogli sponsor, enti culturali, festival e sacre istituzioni. Sembra che nessuno riesca o voglia sfuggire all'aurea regola di sollecitare il pubblico proponendogli una quantità abnorme di testi e sceneggiature che, nella scansione esasperata di una famosa nomenclatura del passato, si risolva in un successo di massa.
Stranissimo quindi che nessuno, prima del volonteroso Renato Giordano, abbia pensato al Satyricon da tempo consacrato grazie al film di Fellini e dalla splendida opera in musica di Bruno Maderna. Anche se, nella fattispecie, il regista dello squisito brogliaccio sulla Roma della decadenza vergato con impareggiabile levità da quel Petronio arbiter elegantiarum che André Gide prese a modello quando concepì Corydon, si preoccupa ben poco nel suo sbrigativo lavorio di amputazione e ricucitura dell'importanza dei temi trattati dall'autore latino. Concentrandosi sulla sola Cena di Trimalcione significativamente accoppiata, in questa versione che sa di avanspettacolo, a un Petronio che detta a una schiava le parole immortali del libro il cui svolgimento vediamo dipanarsi al centro del palcoscenico. Dove, per nostra fortuna, un grande Giorgio Albertazzi tratteggia con consumata abilità discorsiva le grandi linee dell'opera in divenire.
Un'intuizione di rara intelligenza che tuttavia rimane allo stato intenzionale data la visione che ci viene propinata sul resto del palco. Sul quale, a eccezione del sapiente mestiere e delle qualità di entertainer di Michele Placido che, nelle vesti di Trimalcione, ci offre un saggio sorprendente di vis comica, si alterna uno stuolo di comprimari da dimenticare mescolati a una disinvolta équipe di danzatori che, tra gli esasperati gorgheggi di alcune cantanti, movimentano la serata. Nello spirito di un Dolci vizi al foro orchestrato non dall'immortale Richard Lester ma da un artigiano di grana grossa che, negli anni ’60, inseguivano Mina o Gianni Morandi per collocarli in quelle pellicole passate alla storia come musicarelli.
Enrico Groppali