da un racconto inedito Roberto Saviano
Adattamento di Mario Gelardi e Giuseppe Miale di Mauro
con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleo
Produzione: Gli Ipocriti e M.B Nuovo Teatro
Palermo Teatro Festival, Nuovo Montevergini, 8 - 9 Ottobre 2010
Quattro ragazzi e un pallone, quattro vite che ruotano attorno ad un baricentro: Santos, il mitico pallone arancione a strisce nere, un pallone da conquistare a caro prezzo, perché in questa sgangherata piazza metropolitana il gioco non è per niente un diritto, ma un frutto del ricatto, quello della camorra che assolda gli occhi, le anime, i sogni di questi ragazzi.
Calciare un pallone può essere una scelta di libertà, ma anche e soprattutto una necessità dettata dalla fame, dalla povertà, dal desiderio di sottrarsi ad uno squallido destino di miseria.
Santos, tratto da un racconto di Roberto Saviano, che ha debuttato per il Palermo Teatro Festival, rappresenta la vita come una partita: sono moderni eroi di un'epopea che ha anche il sapore del mito questi ragazzi. L'avversario in questo caso è la stessa povertà e il campo è quello segnato dalla malavita, che, come vampiro, dà e toglie, si pone come arbitro assoluto delle vite, come dei risultati delle partite, in nome di una dura logica del guadagno e degli affari.
A sparigliare ogni luogo comune, una regia che punta più di tutto sui personaggi, sulle loro storie cariche di verità e di umanità, quella di Mario Gelardi, già regista della versione teatrale di Gomorra, così come i quattro attori nei panni di altrettanto ragazzi, ingenui, teneri, violenti, sognatori, in fondo solo ragazzi con il loro diritto di giocare e basta.
Il calcio può redimere la precarietà della vita, ingloba il disperato tentativo di rivalsa, un'utopia elementare concessa a tutti, che diventa un orizzonte mitico in cui si proiettano in modo esponenziale i profili di un'esistenza diversa, le speranze di riscatto da una realtà degradata.
Ma la vita è una battaglia crudele, la camorra incapsula le aspettative e non dà spiragli, non lascia respiro. Tuttavia un fondo di speranza si annida nell'autenticità di questi protagonisti che, fino alla fine mantengono purezza, candore e ingenuità, scoprono a loro spese il bene e il male, il coraggio e la vigliaccheria.
Fra i tre si distingue Ciro, detto il persiano, dal viso ingrugnito, un'innocenza strappata e rubata, il suo sguardo è perduto in un vuoto tangibile e nero, quasi per ammortizzare in un nulla antestico il male dell'esistenza.
Gli altri invece pagano per non avere ceduto al disincanto, per avere, al contrario, mantenuto fino alla fine la fedeltà ad un senso primitivo di giustizia.
Prezioso l'uso del dialetto campano con la trama di sfumature psicologiche e le sonorità espressive che gli sono insite. Una tessitura gestuale che deve molto alla migliore tradizione campana e una comicità amara ma mai sporgente, è così che la regia disegna una quotidianità asfittica contro cui rimbalzano tutti i tentativi di realizzare se stessi. I gesti sono fatti di "sguardi", è proprio lo sguardo la chiave segnica di queste storie, sguardi che non dicono, sguardi che non riescono a vedere lontano, sono sempre guardinghi questi ragazzi, devono "spiare e avvisare", vorrebbero, ma non possono guardare l'orizzonte. Sono bravissimi questi quattro attori che nel minimalismo di ogni movimento e accenno lavorano la semplicità infantile di quattro bambini.
Tonino, è invece il camorrista senza scrupoli, le cui conoscenze storiche rimangono solo citazioni di un taglio temporale senza futuro. Egli si pone come unica alternativa possibile, dispensa sogni a portata di mano, ma elimina inesorabilemente, passo dopo passo, la libertà, perché la Camorra è in tutte le cellule della società, ha mille volti e fa sentire accerchiati.
Questi quattro ragazzi diventano eroi che si battono epicamente per un'etica che accomuna gli esseri viventi. La storia si muove su un paradigma mitico condiviso a tanta lettaratura e cinema sudamericano, come il nuovo film di Walter Salles, "Linea de passe", dove però il calcio è tratteggiato come patetica via di fuga dall'inferno, tentativo sconsolato di salvezza dal naufragio collettivo. Saviano vi attribuisce, invece, un senso tragico che ricorda da vicino i racconti di Osvaldo Soriano, storie di anonimi calciatori che inseguono un pallone in poverissimi villaggi sudamericani. La sua scrittura ha lo stesso senso lirico, ma aggiunge in più quell'indagine sociale, quella prepotenza verista che, come egli stesso afferma, è anche "uno scrivere", aggiungeremmo pasoliniamente, "per resistere".
Filippa Ilardo