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SIGNORINA ELSE (LA) - regia Federico Tiezzi

"La signorina Else", regia di Federico Tiezzi. Foto G. Acerboni "La signorina Else", regia di Federico Tiezzi. Foto G. Acerboni

di Arthur Schnitzler

traduzione di Sandro Lombardi

drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi

regia di Federico Tiezzi

con Lucrezia Guidone (Else) e Martino D'Amico (von Dorsday),
Dagmar Bathmann: violoncello, Omar Cecchi: pianoforte e percussioni, Dusan Mamula: clarinetti

scena Gregorio Zurla

costumi Giovanna Buzzi

luci Gianni Pollini

Compagnia Lombardi - Tiezzi/Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale con il sostegno di Regione Toscana e Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Al Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo, Pistoia Via degli Armeni 4/6 fin al 2 luglio 2017
www.pistoiateatrofestival.it

www.Sipario.it, 20 giugno 2017

PISTOIA - Uno dei testi più introspettivi e commoventi di Schnitzler, che attraverso un toccante monologo e l'utilizzo della tecnica del flusso di coscienza ritrae una società al tramonto, come fu quella dell'Austria Felix negli anni immediatamente precedenti alla Grande Guerra. Al centro di questo dramma, una vicenda tanto semplice da apparire brutale, sia per le cause che la sviluppano, sia per l'indifferenza nella quale si compie: la giovane e bella Else, in vacanza a San Martino di Castrozza (stazione climatica all'epoca molto di moda fra la haute viennese), viene sollecitata dalla madre a chiedere una forte somma di denaro al signor von Dorsday, per salvare il padre dall'arresto per debiti. La sottile allusione a un necessario atto di prostituzione allibisce e addolora la ragazza. Ma lo spettacolo non segue la cronologia originale, bensì, nel'invenzione di Tiezzi, si apre con Else distesa sul tavolo anatomico mentre balbetta alcune frasi sconnesse; poco a poco torna in sé, e dipana la vicenda scabrosa che l'ha vista suo malgrado protagonista, cominciando però a raccontare se stessa, senza nascondere niente, come se, appunto sezionasse il suo animo a beneficio del pubblico. Con una recitazione intensa, intima, piena di pietà per la sua giovinezza sprecata e di rabbia per coloro che avrebbero dovuto proteggerla e invece l'hanno soltanto usata, ovvero i suoi genitori, Else ricostruisce la sua personalità di ragazza altera e orgogliosa della propria bellezza, innamorata del cugino Paul ma in genere delusa dalla timidezza che gli uomini mostrano nei suoi confronti. Un'anima tormentata, insofferente, come spesso accade con i personaggi femminili di Schnitzler, la cui narrativa s'inserisce in un contesto europeo che ha in Nina Berberova, pur con differenti motivazioni, i più efficaci omologhi. A suo modo, Else personifica le ultime vestigia di delicatezza di una società ormai votata al denaro - che in suo nome ha messo da parte i valori tradizionali di lealtà e morigeratezza -, così come è sempre più attenta alle convenzioni e alle apparenze di un onore sempre più dubbio. Con assoluta tranquillità, la madre scrive a Else la scabrosa richiesta, noncurante della difficoltà in cui pone la figlia; il padre, indirettamente, si rivela persino più vile, lasciando alla moglie il compito di chiedere soldi per salvarlo dalla galera.
Dopo un lungo dibattito interiore, Else decide di interpellare von Dorsday, anch'egli ospite dell'albergo: l'incontro/scontro si svolge sul doppio binario della realtà e del monologo interiore, grazie al quale il pubblico può conoscere il dramma che dilania Else, combattuta fra la devozione filiale che in un certo senso le impone di sacrificarsi per il padre, e la rabbia per la propria virtù vilipesa; costretta dalle circostanze a un tono gentile, in cuor suo disprezza questo notabile dall'aria apparentemente rispettabile, impeccabile nell'abito nero da società, forbito nel parlare, attento ai dettagli, pedante ma dotato di una forza che gli deriva dalla ricchezza. Lunghi, angoscianti silenzi si alternano a frasi concitate, in questo dialogo fra i più drammatici scritti da Schnitzler.
Pur professandosi amico del padre della ragazza, finisce per accettare di fornire i 30.000 fiorini richiesti, alla condizione di poterla ammirare nuda per un quarto d'ora. Una condizione formulata con noncuranza ed egoismo, esattamente come accaduto con la madre di Else. A salvare però, almeno in parte, von Dorsday, la sfuggente ammissione della sua solitudine, della sua frustrazione sessuale, che adesso in un certo senso lo costringono a rivalersi su Else. Martino D'Amico dà vita a un uomo disilluso, su se stesso e sugli altri, annoiato dalla mancanza di una donna al suo fianco, che, nonostante la sua ricchezza, non è stato in grado di conquistare. È costretto quindi a rifugiarsi nell'amore mercenario, anche se il suo prudente riserbo borghese non glielo farebbe mai ammettere: l'eccezione fatta con Else, lungi da essere un tratto di riguardo per lei, ne costituisce un ulteriore vilipendio, quasi a voler insinuare la facile indole della ragazza. La quale, rimasta sola, riprende il suo angosciante conflitto interiore. Interpretando Else, la bella Lucrezia Guidone incarna una moderna Ifigenia, che sceglie la via del sacrificio perché rimasta fedele ai valori della famiglia e della solidarietà fra individui. E per affetto filiale, accetta la proposta di von Dorsday. Un sacrificio che commuove per la sua inutilità, in quanto destinato a salvare un padre che non potrà esserle riconoscente, al pari della madre che, s'intuisce, non esiterebbe a richiedere alla figlia una simile cosa, se appena fosse necessario per salvare le apparenze.
In questo dramma tutto psicologico, il pubblico non assiste all'abboccamento fra i due protagonisti, ma ritrova Else svenuta nella hall dell'albergo, subito dopo essere uscita dalla camera dell'uomo. Attorno a lei, si affollano le voci di persone che non vediamo, ma che percepiamo così come le percepisce Else, sospesa in un limbo che le ha fiaccato il corpo ma non la mente. E mentre i pettegolezzi e le supposizioni più varie ammorbano l'aria, il cerchio si chiude e, di nuovo distesa sulla tavola anatomica, dà sfogo ai suoi ultimi pensieri mentre la vita lentamente abbandona il suo giovane corpo; per un eccesso di delicatezza verso se stessa, si spinge verso la morte dopo aver a lungo meditato il suicidio: assolto il suo compito di figlia, si sente però svilita in quanto donna, irrimediabilmente sola in una società eccessivamente ipocrita e materialista.
Da uno dei testi più belli di Schnitzler, Tiezzi trae uno spettacolo dal carattere intimo, anche per la vicinanza degli attori con il pubblico, dato lo spazio particolarmente ristretto, sospeso fra il conscio e l'inconscio, sogno e realtà, la vita e la morte, mentre la piccola orchestra dal vivo, che suona arie di Beethoven e Chopin, ricostruisce l'atmosfera fin de siècle delle stazioni climatiche alla moda.
Il lungo lavoro di adattamento drammaturgico del testo - che si concentra sulla dimensione interiore limitando al minimo l'azione scenica -, fa emergere l'anima teatrale dell'antica sala anatomica, e alla chiusura dell'ideale sipario scrosciano meritati applausi per uno spettacolo che non manca di essere attuale nel suo ritrarre famiglie spezzate, dialoghi impossibili fra genitori e figli, e la mercificazione del corpo come mezzo di sopravvivenza. Per le sue vittime innocenti, soltanto il sincero dolore di pochi umanisti.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Martedì, 20 Giugno 2017 22:05

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