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PROJECT MERCURY - regia Filippo Andreatta

“Progetto Mercury”, idea, regia, scenografia Filippo Andreatta. Foto Andrea Pizzalis “Progetto Mercury”, idea, regia, scenografia Filippo Andreatta. Foto Andrea Pizzalis

di OHT | Office for a Human Theatre
idea, regia, scenografia Filippo Andreatta
di e con Chiara Caimmi, Fiora Blasi
drammaturgia Filippo Andreatta e Charles Adrian Gillott
esperto spaziale Paolo Giuseppe Bianchi
costumi Andrea Ravieli
direttore palcoscenico Massimiliano Rassu
costruzione pedana Giovanni Marocco
produzione Laura Marinelli
una produzione OHT
con il supporto di Fondazione Caritro, PAT residenza artistica Centrale Fies, Residenze IDRA, Teatro Cantiere Florida
Visto a Zona K, Milano, il 5 ottobre 2018

www.Sipario.it, 14 ottobre 2018

E' un gioco muto, un farsi teatro lentamente dal gioco muto, o quasi, di due amiche, Fiora e Chiara, in un ambiente che ricalca uno studio fotografico o il candore immacolato e hi-tech di una navicella spaziale, con uno schermo che sul fondo riceve, il pubblico entrando, le immagini delle sequenze d'avvio di "2001 Odissea nello spazio". Le due amiche inizialmente comunicano via chat, le battute del loro dialogo si possono leggere sullo schermo di fondo, digitate da colei che vediamo, disponendoci, intenta al film e poi a battere sulla tastiera. Dopo un po' l'altra amica appare: è il viaggio nello spazio il tema del loro incontro, introdotto dalla notizia che la NASA ha lanciato una call per la ricerca di nuovi astronauti e dalla decisione delle due amiche di parteciparvi. Da qui in poi la coppia imposta una situazione in cui esame, addestramento e partenza per lo spazio diventano le diverse fasi di un gioco. Gioco che è possibilità di uscire dalla gabbia della quotidianità, sogno infantile e insieme fantasma di affermazione professionale.
Chi sono le due amiche? Perché vogliono andare nello spazio? A poco a poco, anche con il contributo di altri filmati, vengono introdotti ulteriori elementi. Il riferimento è innanzitutto al progetto Mercury (da cui il titolo dello spettacolo) che prevedeva di mandare nello spazio, verso la fine degli anni '50, un team di 13 donne, tra cui Jerrie Cobb, la leader del gruppo, "che aveva maturato un monte ore di volo nettamente superiore a qualunque altro pilota maschile dell'epoca", ma a cui non fu consentito di partire perché, in quanto donna, non poteva entrare a far parte dell'esercito e dunque della NASA. Nel gioco delle due amiche risuonano echi di un divieto o di un'impossibilità; bambine troppo cresciute o donne a cui sono state tarpate le ali in attesa di un'occasione che non arriva, stanno chiuse in una stanzetta eterna, da cui non usciranno forse mai, immerse in un'adolescenza torpida e insieme palpitante di desideri. E allora prevale il gioco. Il "facciamo che eravamo". Che subito le porta a immaginarsi di partire a bordo di una navicella di cui la stanza assume l'illuminazione: ed ecco le lampade "a ombrello" da studio fotografico e la bassa pedana pavimentata a quadri bianchi sottoilluminati accendersi. Immerse nella luce diffusa, in una lattiginosa atmosfera di sospensione, le due amiche "entrano nello spazio" attraverso un'altra celebre scena del film di Kubrik: quella in cui vediamo galleggiare nel vuoto la penna e la mano del passeggero addormentato sulla piccola astronave. Imitando la levità senza peso di quel fluttuare, e poi con tutto il corpo la condizione di assenza di gravità, le due amiche entrano nel gioco, anticipano e in qualche modo anche realizzano l'esperienza dello spazio. Come se, imitando quella condizione con tutto se stesso, uno potesse veramente convincersi di stare in quella condizione. Ma questo non è, in fondo, sottilmente vero? Non è forse sottilmente vero che il corpo può anticipare uno stato anche fisico con la sua capacità di ri-crearsi attraverso una disciplina, e così stabilire le condizioni per l'affermarsi reale di quello stato? Non è forse il "sognare dal mento in giù" come sosteneva di fare ogni minuto della sua vita Henry Miller? Tuttavia, qui vediamo un sognare confinato nell'ambiente chiuso di una stanzetta. Non sappiamo cosa ci sia fuori. Le due ragazze galleggiano in un presente continuo. E la realtà del gioco a fondare il gioco della realtà, ma la realtà rimane fuori. Teatralmente parlando le due attrici lavorano a rendere correlativi oggettivi dell'"esperienza cosmonautica" gli oggetti d'uso quotidiano che le circonda. Specialmente un appendiabiti – cui stanno sospese, fin dall'inizio, due similtute da astronauta – attraversando l'arcata centrale del quale Fiora e Chiara possono agevolmente immaginare di oltrepassare il portellone della navicella per andare a passeggiare nello spazio.
La conversazione via chat con cui si è avviato lo spettacolo la ritroviamo nel finale quando, al rientro dalla passeggiata, una delle due viene inghiottita dal vuoto siderale mentre l'altra, tornata al sicuro, si accorge dell'incidente ma, con un procedimento d'inversione ironica accattivante, riprende la reciproca chat con l'amica dispersa come se nulla fosse: "mi verresti a prendere?" "Ora non posso" "E quando?" "Lunedì".
Ma in fondo questo finale, a voler leggere più in profondità, rimane aperto anche a un'altra ipotesi. Non appare solo come la conclusione ironica di un percorso ludico-relazionale-esistenziale, ma si può interpretare anche come il segno di un atteggiamento, variamente presente nella nostra società, che spesso viene assunto nei confronti della sparizione del corpo, della morte. Come un'incapacità ad accettarne l'inevitabile immanenza. Non solo colei che è rimasta viva non registra la scomparsa dell'altra, ma anche l'altra sembra non registrare la propria, di scomparsa. Continuando, si direbbe, al netto della paradossalità conclamata della situazione, a far finta di essere viva. Cioè, dopotutto, continuando a fare quello che accomuna le vite apparentemente soddisfatte di molti essere umani. Vogliamo continuare a far finta di essere vivi o cominciare a vivere sul serio? Lo spettacolo si chiude sul confine di questa domanda inespressa.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Lunedì, 15 Ottobre 2018 10:16

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