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PADRE (IL) - regia Gabriele Lavia

Gabriele Lavia e Federica Di Martino in "Il padre", regia Gabriele Lavia. Foto Tommaso Le Pera Gabriele Lavia e Federica Di Martino in "Il padre", regia Gabriele Lavia. Foto Tommaso Le Pera

di August Strindberg
Adolf, il capitano: Gabriele Lavia
Laura, la moglie: Federica Di Martino
Berta, la figlia: Anna Chiara Colombo
La balia: Giusi Merli
Il pastore: Gianni De Lellis
Il dottor Östermark: Michele Demaria
Nöjd: soldato semplice
Ludvig: l'attendente
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi
luci Michelangelo Vitullo
regista assistente Simone Faloppa
regia Gabriele Lavia

Firenze, Teatro della Pergola dal 16 al 21 gennaio 2018

www.Sipario.it, 22 gennaio 2018

FIRENZE - L'aspra lotta fra un padre e una madre, un marito e una moglie, un uomo e una donna, per decidere l'avvenire della figlia, è la causa della fine di una relazione che all'apparenza sembrava felice e indistruttibile, e mette a nudo la fragilità dell'essere umano pensante, davanti all'istinto cieco e irrazionale che però ha la certezza dell'essere. Con Il padre, August Strindberg scrisse un autentico capolavoro di dissertazione filosofica, sulle orme di Friedrich Nietzsche.
A scatenare quella che diventa una spirale di follia e di ipocrisia, una vicenda assai banale, anche se chiaramente poco elegante: uno dei soldati del reggimento comandato da Adolf, mette incinta una giovane cameriera che serve in casa dell'uomo. Questo lo redarguisce, ma in realtà, per evitare scandali, preferisce affidare il nascituro al brefotrofio, e mandare la ragazza presso un'altra famiglia. Alla moglie che accenna un'osservazione, circa la possibilità di accertarsi se il figlio è davvero del soldato, Adolf risponde che la scienza, allo stato delle conoscenze, non permette di definire tali questioni. Come per rivalsa, la donna insinua che l'incertezza potrebbe riguardare anche la paternità di Adolf nei confronti di Berta. Prende così avvio una spirale d'ossessione che condurrà l'uomo alla follia e alla morte. La discriminante è appunto la certezza o l'incertezza dell'essere, e quindi dell'io; generare figli è la prova più tangibile di ciò, ma la certezza esiste soltanto per la donna, l'uomo può essere facilmente ingannato. E a poco serve, per difendersi da ciò, il sapere che un individuo può accumulare (perché all'epoca la scienza non conosceva ancora il DNA), le scoperte che può fare, le capacità militari che può avere (come nel caso di Adolf). Uomo però anche debole, nato, come confesso lui stesso, per errore, e quindi non troppo amato dai genitori; da qui, l'amore viscerale per la figlia Berta, che ad ogni costo vorrebbe sottrarre all'influenza della madre e della suocera e mandarla a studiare in città. La possibile lontananza della figlia e i pregiudizi verso la cultura, allarmano la donna, disposta a tutto pur di non perderla, anche a far interdire Adolf e farlo dichiarare folle. Allo scopo, informa il giovane dottor Östermark (inquilino della coppia), delle stranezze del marito in fatto di scienza, ma non ottiene credibilità.
Uomo non sprovveduto, Adolf intuisce le manovre della moglie, e fra i due coniugi ha luogo un violento confronto, in cui l'uomo accusa la moglie di aver sempre invidiato e temuto i suoi studi scientifici, la sua carriera di militare, la sua personalità assai più (elevata) di quella di lei, e perciò ha sempre tentato di danneggiarlo, ed è comunque riuscita ad allontanare da lui i suoi sottoposti, persino i suoi familiari; la stessa Berta oscilla infatti indecisa fra lui e la madre, ma propende per la seconda. Nel suo lungo monologo, Adolf chiede conferma della sua paternità su Berta, e adombra però il sospetto che Laura abbia concepita la figlia da un altro uomo, in un periodo in cui il marito giaceva ammalato, per timore, in caso di sua dipartita, di restare senza eredità, in assenza appunto di figli. La donna nega, ma Adolf non riesce più a crederle. E in un eccesso di rabbia, giunge quasi a gettarle contro la lampada a petrolio accesa.
È questo il climax della vicenda, l'apice dello scontro fra due differenti concezioni dell'esistenza: Adolf e Laura. Nei panni del capitano, Lavia offre una prova intensa e coinvolgente, dando vita ai tormenti esistenziali di un uomo mai pago di se stesso, determinato a lasciare una traccia che dimostri il suo passaggio sulla Terra; la scienza e la carriera sono una strada, ma la paternità come detto è quella più tangibile. Perdendone la certezza, l'uomo rivela tutta la sua fragilità, e l'esito non può che essere l'amletica follia (essere o non essere, questo è il problema). L'altro volto dell'esistenza, è Laura, la moglie, donna energica che sa fingersi debole e remissiva, in realtà cova in grembo il fuoco di una rabbia istintiva, è patologicamente possessiva nei confronti della figlia, come a voler ribadire l'esclusività di quella forza generatrice di vita che la pone al di sopra dell'uomo (a una conclusione simile era già arrivato Giorgione dipingendo la zingara della Tempesta). Federica Di Martino presta con efficacia il volto a Laura, interpretandone con isterica bravura le ossessioni e le meschinità. Nell'affermare la follia del marito, si pone come una moderna Onfale, colei che, nella mitologia greca. priva l'uomo della virilità.
Attorno ai due si muove una pletora di non-uomini: il dottor Östermark, il pastore protestante fratello di Laura, i due soldati Nöjd e Ludvig, ognuno dei quali è di fatto succube della donna, e allarmati dal loro aspro litigio, accorrono, e si convincono di come il capitano sia effettivamente impazzito. Ma non si tratta di una follia insensata, improvvisa: essa è il risultato di anni di amarezze, causate da Laura che ha isolato l'uomo anche in famiglia, additando i suoi per lei strani comportamenti. E nessuno è stato abbastanza accorto da smentirla. Adolf infine muore, dopo aver guardato un'ultima volta le stelle con il telescopio ed essersi abbandonato un ultimo istante a contemplare quella regione "di perenne certezza" (per citare Tomasi di Lampedusa).
Uno spettacolo dal ritmo lento, tipico del romanzo psicologico del tardo Ottocento, con un registro linguistico raffinato, che riesce ad affascinare il pubblico e a meritare i calorosi applausi che scrosciano alla chiusura del sipario. Lavia mantiene le atmosfere originali del dramma, ambientandolo in un elegante salone alto-borghese del primo Novecento, dove il rosso scarlatto è il colore predominante. Per meglio dare l'impressione della crisi della borghesia, Lavia adotta un'efficace soluzione scenica: i raffinati mobili - le poltrone, il divano, la scrivania, la pendola, il tavolino -, non stanno sul palcoscenico esattamente dritti, ma pendono da un lato, per mancanza di adeguati sostegni: metafora visiva dello sfaldamento della borghesia, che ha persi i suoi valori di riferimento.
Con amaro realismo, Strindberg prende coscienza dell'inevitabile sconfitta della filosofia del Superuomo, per mano di una parte dell'umanità, disgraziatamente maggioritaria, vile e ignorante, timorosa del nuovo e incatenata ai pregiudizi. Per citare Oscar Wilde, "la tirannia del debole sul forte è l'unica tirannia che duri". All'apparenza, il testo sembrerebbe venato di misoginia, in realtà, figlio dei suoi tempi Strindberg ha scelto la situazione più ovvia nella quale trasferire la lotta fra "essere" e "non essere", utilizzando i paradigmi sociali della sua epoca.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Lunedì, 22 Gennaio 2018 12:13

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