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PARADISO - regia Maria Federica Maestri


"Paradiso", regia Maria Federica Maestri. Foto  Francesco Pititto "Paradiso", regia Maria Federica Maestri. Foto Francesco Pititto

dai Quattro Pezzi Sacri di Giuseppe Verdi

Lenz Fondazione
Drammaturgia e imagoturgia | Francesco Pititto

Installazione site-specific | elementi plastici | costumi | regia | Maria Federica Maestri

Musica | installazione sonora | Andrea Azzali

Direttore del Coro | Gabriella Corsaro

In scena | Associazione Cori Parmensi e Ensemble di Lenz Fondazione

Shooting fotografico | Fiorella Iacono

Cura | Elena Sorbi   Organizzazione | Ilaria Stocchi

Ufficio stampa | Michele Pascarella   Media video | Stefano Cacciani

Cura tecnica | Alice Scartapacchio, Lucia Manghi, Gianluca Losi, Marco Cavellini

Produzione | Lenz Fondazione

in collaborazione con: Teatro Regio di Parma < Festival Verdi
con il sostegno di: MiBACT – Comune di Parma, Regione Emilia-Romagna, DAI SM-DP Ausl (progetto speciale SERT), Fondazione Monteparma
Ponte Nord, Festival Verdi, Parma dall'11 al 22 ottobre, 2017

www.Sipario.it, 18 ottobre 2017

E' questo il paradiso che ci meritiamo? Un paradiso da 25 milioni di euro lanciato sopra il greto del torrente Parma, una rincorsa di travi in ferro bianco e pareti di vetro sovrastate da una copertura cupoliforme metallica, sinuosa e avvolgente? Un ponte chiuso, un paradiso vuoto: rintocchi di capriate e travature che risuonano tra un piano e l'altro fino a giungere, dal primo al terzo, alla sommità della singolare architettura. Vista dalla strada si slancia come un treno in corsa contro i treni fermi della stazione poco distante. Un paradiso? Non sembrerebbe. Tuttavia, malgrado la sua non edificante storia, il Ponte Nord, costruito con denaro pubblico per ospitare attività commerciali ed espositive e poi chiuso, anzi mai aperto, al pubblico, se osservato dal punto di vista del "Paradiso" di Dante, si presta sorprendentemente alla prassi visionaria di Lenz Fondazione – e dei suoi registi-drammaturghi Francesco Pititto e Maria Federica Maestri – che dall'11 al 22 ottobre tiene in scena in questa sede "Paradiso. Un pezzo sacro" su commissione del festival Verdi di Parma.

Un festival essenzialmente di tradizione (anche se ospita una sezione intitolata "Verdi Off") con Verdi al centro della programmazione e che tuttavia, altro miracolo, si apre a una produzione tutta contemporanea dove Verdi c'entra certo, ma non ne è il focus. C'entra perché la seconda parte del titolo, "Un pezzo sacro", si riferisce proprio alle "Laudi alla Vergine Maria", uno dei quattro pezzi sacri che Verdi dedicò alla figura mariana musicando l'incipit del XXXIII canto del Paradiso di Dante.
Ed è quanto udiamo risuonare, durante l'ora di spettacolo, dalle voci di un coro che si muove – o meglio, non sta fermo, come un coro di solito fa – e segue il piano di regia della coppia di artefici, disperdendosi per esempio sulle balconate, in una fila lunghissima, o disponendo i cantanti sdraiati al suolo per tutta la lunghezza della prima sala del ponte.
Impresa doppiamente difficile perché il coro è formato da cantanti non tutti professionisti, appartenenti all'Associazione Cori Parmensi, guidati qui da Gabriella Corsaro.

Inoltre ecco che, com'è consuetudine di Lenz, si rinnova la scelta della compresenza in scena di attori normodotati e di attori disabili, o "sensibili" – dove spesso questi ultimi, tra l'altro, appaiono quasi più potenti dei primi – ormai un punto fermo delle produzioni del gruppo parmigiano.
Più potenti perché la loro presenza è nuda, senza orpelli, essenziale, interessante, per quella strana risonanza che pare in loro irradiare da un mondo parallelo, presi a volte da una sorta di stuporoso candore alternato da improvvisi soprassalti di vigore vocale e fisico: se parlano lo fanno in un modo che ritiene già in sé quella forma di artificialità perturbante per raggiungere la quale un attore può spendere anni di tentativi, e per una forza della presenza fisica che si impone da sé senza che appaiano in filigrana tracce di eventuali training – l'extra quotidianità del loro corpo scenico essendo in qualche modo già un dato di partenza del loro corpo fisico. Certo, si tratta di un modo di stare in scena che rischia di rimanere sempre uguale a se stesso, e che tuttavia prende di volta in volta nuovo senso dalle operazioni registico-drammaturgiche che gli si costruiscono intorno, ma che nel caso di Lenz non viene distorto dalla tentazione di sfruttare il potenziale "esotico" di tale presenza, per conseguire sullo spettatore una gamma di effetti che vada dal pietismo al compiacimento perché "ce l'hanno fatta", ecc.... Insomma solo da attori queste persone calcano con dignità e forza espressiva la scena, e questo basti.

Così siamo ancora una volta in presenza di una serie di ingredienti (il coinvolgimento di settori della città, il lavoro con la disabilità, la scelta di spazi non canonici o addirittura rimossi dalla coscienza collettiva ecc.) che delineano quello che molto teatro contemporaneo da tempo è chiamato a fare, alla ricerca di un senso della polis che si possa rifondare, o almeno riaffermare, attraverso gli strumenti inclusivi del linguaggio scenico.

Prima di entrare, agli spettatori si raccomanda di muoversi liberamente nella sala al piano terra, dove comincia il percorso. E' strano ma, entrando, scorgere a terra una lunga fila di figure larvali dormienti mette un'improvvisa tenerezza. Sono le attrici di Lenz (per un lavoro in cui il Paradiso che Dante e San Bernardo abitano, come scrive Maria Federica Maestri nel programma di sala: "è solo della donna, solo attraverso il corpo di lei si può vivere, non vedere la luce") le quali stanno avvolte fino alla testa in sacchi a pelo neri di quelli cosiddetti "a mummia".

Immobili, piccoli visi incorniciati dal cappuccio, il fondo del sacco a pelo come se la tensione verso l'esterno dei piedi ne allargasse le punte a ricordare la coda di un pesce. Strane larve o girini o spermatozoi o appunto mummie disposte con ordine ritmico a terra, oppure viaggiatori del tempo e dello spazio sospesi nello stupore di morte di uno stato criogenico indotto, ad ogni modo sante spoglie – questa la forte impressione entrando – davanti alle quali un impulso improvviso quasi ci spinge in ginocchio: per osservarle meglio? Per pregare con loro?

Una base musicale elettronica riempie lo spazio sonoro, una musica che si avvolge a spirale, a ondate. Sono poco meno di cinquanta le persone che dallo stato di quiete nero si svolgono dai bozzoli a manifestare una chiarità di lini grezzi con teste incuffiate e larghe vesti; su tutto ora è il canto corale che s'insinua nella spirale elettronica della musica e che si spiega con note dolenti e dolci. Abolita la centralità dell'azione, performers e spettatori condividono una prossimità; la libertà di movimento dei secondi consente a ciascuno di eleggere il proprio punto di vista fin quando l'allineamento del numeroso coro sulla balconata longitudinale del primo piano non costringe gli spettatori a disporsi su un unico lato e a liberare un corridoio nel quale avanza per tutta la lunghezza della sala una delle attrici sensibili (Delfina Rivieri): anziana, braccia levate al cielo, volto segnato e voce rotta che ripete "Io sono la Vergine Maria" in una dissonante recisione del legame, anche iconografico, che lega la figura di Maria a quella delle sue rappresentazioni canoniche e che, lungi dall'apparire blasfema, restituisce uno strato di verità allo stereotipo, giocando con la vertigine della coniunctio oppositorum.

Il percorso dantesco prosegue al secondo piano dove una serie di sgabelli posti sul lato lungo attende gli spettatori che siedono sotto a quelle che sembrano piccole amache dalle quali un fagotto di cenci sgocciola sul pavimento formando ampie pozze d'acqua nelle quali le attrici inizialmente accucciate a terra s'inoltrano bagnando le gonne a volute bianche o nere (è tutto in bianco e in nero questo Paradiso, ma il nero è residuale, una spoglia, mentre il bianco è dappertutto, negli abiti, nei pavimenti, nei travi, nei soffitti). In questo secondo quadro si è visto Dante ascendere verso il Paradiso all'inseguimento di Beatrice dopo un breve e vivace dialogo con San Bernardo (Frank Berzieri) dal tono diretto, quasi popolaresco. I versi finali di questa sezione sono memorabili e folgoranti (tratti da Canciones del Alma di Giovanni della Croce): Per arrivare a quello che non sai/ Devi andare per dove non sai/ Per arrivare a quello che ora non ti piace/ Devi andare per dove non ti piace/ Per arrivare a quel che non possiedi/ Devi andare per dove non ti piace./ Per arrivare a quello che non sai/ Devi andare per dove non sai.

Qui la sensazione di stare in una grande pancia gocciolante umori materni è fortissima, un'ascensione che è anche discesa nel corpo femminile.
Ci si sposta ancora per l'ultimo quadro, dove le evoluzioni del coro continuano circolari e reiterate intorno al Dante "sensibile" di Paolo Maccini e dove tutte le cantanti sono incappucciate in teli impermeabili che geometrizzano in angolature rigide i corpi e Dante rimane solo infine con le ultime parole E la luce sono adesso Io.

Paradiso di donne e di canto, di umori e di carne, di contrasti e di luce, di dolcezze e fragilità.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Venerdì, 20 Ottobre 2017 00:29

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