testo: Geraldo Alencar
direzione artistica del progetto e dello spettacolo: Cacà Carvalho
co-direzione artistica del progetto e dello spettacolo: Roberto Bacci
partitura e preparazione vocale: Francesca Della Monica
scene e costumi: Marcio Medina
con: Dinho Lima Flor, Fabiana Barbosa, Joana Levi, Laila Garin, Leonardo Ventura, Majò Sesan, Marcelo Valente, Raquel Tamaio
Firenze, Stazione Leopolda, dal 16 al 18 maggio 2008
È stato forse lo spettacolo più importante di Fabbrica Europa (almeno per la prosa, perché danza e musica avevano altre eccellenze). Ma O homem provisorio è stata soprattutto una occasione rara per lo spettatore italiano di misurarsi con la grande spettacolarità sudamericana, sospesa tra letteratura e visionarietà. Nasce da un'opera fondamentale quanto «ingombrante», come può risultare alla lettura Il grande Sertão di Guimarães Rosa. Un mondo epico che è stato rivelato e fatto amare dal cinema di Glauber Rocha, e che per chi l'ha amato qui rivive in un visione elementare ma molto pregnante, grazie alla teatralità efficace di Cacà Carvalho: capace di cambiarci di luogo e di tempo con il solo scorrere di un velo e delle luci. Con Carvalho e il suo gruppo brasiliano hanno collaborato strettamente in questa occasione Roberto Bacci e tutto Pontedera Teatro (una collaborazione ormai di lungo periodo, che ha preso corpo di recente nella creazione di una vera e propria Casa Laboratorio per le arti del teatro).
L'uomo provvisorio del titolo è il protagonista di questo epico viaggio attraverso il sertão, appunto, dove come in un grande romanzo di formazione cercherà di superare la propria «provvisorietà» e divenire sicuro e adulto. Ma il diavolo lo ostacola con i suoi molti e poetici travestimenti, con bugie colossali e verità elementari, in cui si ritrovano mitologie e archetipi fatti apposta per rendergli difficile la sua vocazione alla maturità. Giovanetti e prostitute, animali e guerrieri, tutti mirabilmente inventati sulla scena con geniale semplicità, gli complicheranno la vita rendendogli difficile il raggiungimento del suo scopo. Hanno però l'effetto di costringerlo, e come lui l'occhio degli spettatori, ad un percorso ininterrotto e fascinoso, tanto misterioso quanto vitale.
In quel percorso fatto di eros e di paure, tra lusinghe e delusioni, tra visioni e artifici, sta l'accattivante necessità del sertao, esperienza che vale la pena percorrere, anche se sembra ogni volta di conoscerla già bene. Come il teatro, o la vita stessa.
Gianfranco Capitta
Scegliamo uno spettacolo, decidiamo di andare a vedere proprio quello e non un altro, per il suo regista o, in seconda istanza, per la compagnia che lo allestisce, per i suoi interpreti. Più raro che determinante sia l' autore o il testo messo in scena; è naturale che decisiva sia infine la miscela, l' insieme. Ma nel caso di O homem provisorio, frutto della collaborazione della Casa Laboratorio per le arti di São Paulo e di Pontedera Teatro per la regia di Cacà Carvalho, per me decisivo, esorbitando la regola, è stato il testo da cui lo spettacolo è tratto, Grande sertão di João Guimarães Rosa. Decisivo per due motivi: perché quando lo lessi nel 1970 nella celeberrima traduzione di Edoardo Bizzarri non portai la lettura a compimento; e perché, magari con una disciplina di avvicinamento, a tanto volevo arrivare. A tanto? Nei venti giorni di lettura, 50 pagine al giorno, ho scoperto che questo romanzo meraviglioso (fluviale-limaccioso, magmatico, scritto ad alta voce, a voce squillante) è raramente nominato ma molto conosciuto. Conosciuto in due diversi e precisi modi: quasi tutti i lettori dello scrittore brasiliano confessano di ammirarlo ma di non aver finito di leggere il suo capolavoro. Poi ci sono i fanatici, i lettori eccellenti, che dicono: è il mio romanzo, da Claudio Magris a (reputo) Cesare Segre, da Michele Mari a Andrea Landolfi, il bravissimo traduttore di Gregor von Rezzori. L' ho incontrato prima di entrare in teatro, non lo vedevo da vent' anni e mi ha detto che il suo romanzo preferito non è, poniamo, Un ermellino a Cernopol ma Grande sertão! Purtroppo, e manco a dirlo, lo spettacolo delude le attese. Quando annunciavo che ero sul punto di vederlo, i miei interlocutori erano scettici: «Come si fa a ridurlo per la scena?». Mario Ricci, rispondevo io, in quel lontano 1970 non ridusse Moby Dick in una memorabile ora di folgoranti immagini? Ma quello era, appunto, il teatro-immagine. O homem provisorio non è che un inerte residuo del Terzo teatro, la dogmatica peste delle nostre università. Lo schema drammaturgico di Carvalho e il suo modo di sviluppare le immagini - corse, assembramenti dei corpi, loro scioglimento, qualche dialogo - è simile a quello del recente La pelle di Marco Baliani. I personaggi, i banditi che traversano senza requie il deserto, tutti contro tutti e tutti contro lo Stato, sono in cerca non tanto della libertà dal potere politico quanto della misura di sé e in definitiva dell' anima propria. Essi qui ci appaiono in diverse sfumature di luce, dietro una, due, tre, quattro sipari-tende di organza. Il molteplice spessore delle ombre è l' unica vera suggestione dello spettacolo. Ve ne è un' altra, circoscritta e in parte prevedibile. Tutte le zigzaganti traiettorie nel tempo e nello spazio dei banditi hanno in realtà un punto di convergenza, vorrei dire d' arrivo, una rivelazione, dove il segreto e il mistero del romanzo sciogliendosi si saldano. Il compagno d' avventure che il narratore Riobaldo amava, Diadorim, era provvisorio in due sensi: come tutti lo sono, e perché era un dio nero; ora è, come nel film di Glauber Rocha, un diavolo biondo che per vivere nel deserto aveva assunto sembianze di maschio guerriero. È una donna che, nella scena finale di Carvalho, non solo appare a petto nudo ma, lo intravediamo dietro un velo, è una donna dal seno possente, ultra-femminile. Tutto ciò che è stato sempre nascosto, e sempre desiderato, era quel punto d' origine, lì dove i contrari in lotta tra loro sono infine ricongiunti.
Franco Cordelli