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ORESTE (L'). QUANDO I MORTI UCCIDONO I VIVI - regia Giuseppe Marini

Claudio Casadio in "L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi", regia Giuseppe Marini. Foto Tommaso Le Pera Claudio Casadio in "L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi", regia Giuseppe Marini. Foto Tommaso Le Pera

di Francesco Niccolini
con Claudio Casadio
illustrazioni Andrea Bruno
scenografie e animazioni Imaginarium Creative Studio
costumi Helga Williams
musiche originali Paolo Coletta
light design Michele Lavanga
suono Francesco Cavessi
collaborazione alla drammaturgia Claudio Casadio
voci di Cecilia D’Amico, Andrea Paolotti, Giuseppe Marini, Andrea Monno
Coproduzione Società per Attori e Accademia Perduta/Romagna Teatri in collaborazione con Lucca Comics & Games
Teatro Gobetti, Torino, mercoledì 15 marzo 2023

www.Sipario.it, 17 marzo 2023

Può uno spettacolo teatrale, ancor di più un monologo, risultare perfetta sintesi di un lavoro di gruppo, esito finale dell’interazione tra chi scrive, chi dirige, chi recita, chi veste e chi illumina? La risposta è ovviamente affermativa, un “sì” gridato ai quattro venti nel caso de L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi, splendida pagina di teatro scritta da Francesco Niccolini, ben diretta da Giuseppe Marini, magistralmente interpretata da Claudio Casadei con le suggestive illustrazioni di Andrea Bruno.

Un viaggio di fantasia fortemente ancorato alla realtà è quello che ha per protagonista l’Oreste, “pazzariello” ospite da più di trent’anni dell’ospedale psichiatrico dell’Osservanza di Imola pronto a condividere con il pubblico un’esperienza di (non) vita destinata a concludersi tragicamente: la madre che prima abbandona, e poi ammazza il padre per rifugiarsi tra braccia più giovani, la sorella tragicamente morta, la fidanzata idealizzata, il viaggio sulla luna a più riprese desiderato. Basterebbero questi ingredienti per raccontare i tre decenni di vita trascorsi tra le fredde e scrostate mura di un carcere per pazzi che vede lui, Oreste, osservato speciale dopo aver vendicato la morte del padre con la mattanza della madre e del giovane amante.

Biografia sanguinaria a parte, L’Oreste è anche, se non soprattutto, una struggente pagina di storia contemporanea, pur se di rimandi al loro presente i più giovani tra gli spettatori ne troveranno pochi: eppure ci piace immaginare che siano proprio loro i destinatari di una favola noir che ripropone, con forza e poesia, il tema della malattia mentale, il destino di centinaia di uomini e donne dimenticati dalla società e troppo spesso abbandonati al loro destino in una stanza manicomiale con un tavolo, un letto, un armadietto e un comodino. E’ questo anche il destino del protagonista che però non si arrende, semmai costruisce il suo mondo di amicizie inesistenti, di visite dell’amata sorella come di lettere d’amore scritte, e mai recapitate, di dialoghi con medici ed infermieri: presenze immaginarie che rivivono sulle pareti nella forma di illustrazioni animate di estrema suggestione in grado di porsi come tessere di un mosaico visivo dal potenziale drammaturgico pari a quello scritto. E poi c’è il testo che Francesco Niccolini cura con grande attenzione, storia di una (stra)ordinaria violenza e follia riferita con toni ora surreali, ora leggeri, sempre attenti a non valicare i confini del tracciato entro cui si muove il protagonista.

Quando i morti uccidono i vivi, recita il sottotitolo dello spettacolo: è il “morto” Oreste di un bravissimo Claudio Casadio, maschera sognante dalla grande umanità nel suo appena accennato eloquio romagnolo, ha il grande merito di sbattere in faccia a noi “vivi” l’epocale dramma, forse irrisolto, di persone isolate dalla società che quando si trovano a riconquistare l’agognata libertà non sono neanche in grado di attraversare la strada, e di prendere una caffè al bancone di un bar: il punto di fuga, le quattro fredde mura da cui tanto si vorrebbe scappare, si rivelano essere l’unica casa in grado di accogliere debolezze e paure di una vita intera. Ed all’Oreste figlio del nostro tempo non resta che ingurgitare una scodella intera di sonniferi e stringersi attorno al volto un sacchetto di plastica, epilogo di una parabola iniziata male, e finita peggio, che lascia a noi vivi, o forse non meno morti di lui, il retrogusto di un’amara sconfitta esistenziale.

Roberto Canavesi

Ultima modifica il Venerdì, 17 Marzo 2023 09:24

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