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ORESTEA - regia Maria Federica Maestri

"Orestea", regia Maria Federica Maestri. Foto Maria Federica Maestri "Orestea", regia Maria Federica Maestri. Foto Maria Federica Maestri

da Eschilo

Progetto quadriennale 2018-2021
#1 NIDI da Agamennone

#2 LATTE da Le Coefore

#3 PUPILLA da Le Eumenidi
Drammaturgia e riscrittura | Francesco Pititto

Installazione, regia, costumi | Maria Federica Maestri
Interpreti | Valentina Barbarini, Monica Barone, Lara Bonvini, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera
Musica | Lillevan

Cura | Elena Sorbi

Organizzazione | Ilaria Stocchi

Ufficio stampa, comunicazione, promozione | Michele Pascarella

Cura tecnica | Alice Scartapacchio, Lucia Manghi

Assistente | Marco Cavellini

Produzione | Lenz Fondazione
Sala Majakovskij, Lenz Teatro, Parma, nell’ambito del festival Natura Dèi Teatri 2021 XXV edizione 13, 14, 17, 20 novembre 2021

www.Sipario.it, 26 novembre 2021

L’Orestea di Lenz si dispone scenograficamente come una struttura di velari bianchi a forma di trapezio isoscele. Lo spazio dell’azione vi è racchiuso. Le attrici appariranno quasi sempre all’interno di questa struttura, separate dagli spettatori per mediazioni di luce, per interposizione di veli. Una Maya progettata come a voler rimarcare il dato illusionistico di tutta la feroce vicenda degli Atridi e la sua ambivalente pacificazione.

Gli spettatori sono come allontanati dall’azione per effetto del dispositivo scenico, modalità del resto non del tutto nuova in Lenz, ma anche chiamati a far da testimoni, da una posizione quasi defilata, sfocata.

Siamo immersi in un mondo femminile, dove però Oreste (Barbara Voghera) assume le fattezze di un bambino “con voce già vecchia”, e nel quale per converso Clitennestra (Sandra Soncini) esibisce, legato ai fianchi per tutta la durata di una lunga scena, un fallo in lattice che appare di dimensioni enormi. Oreste bambino e Clitennestra madre-uomo. Il primo diviso tra l’impulso verso una vendetta per linea paterna e il dubbio che non debba essere piuttosto il sentimento materno a vincere; la madre che ha già colto la sua vendetta matrilineare. Dov’è la giustizia, la verità? Nella scelta di Clitennestra di uccidere il marito per vendicare la figlia o in quella del figlio di uccidere la madre per vendicare il padre? Ma non c’è alcuna verità o giustizia dietro il meccanico riprodursi di un’azione cieca originata da una hybris atroce, cui peraltro Agamennone ha ceduto senza troppi dubbi, accecato dalla necessità, dal pensiero della guerra e della gloria.

L’angoscia di un ambiente nel quale il presagio della morte e della violenza aleggia fin dalle prime battute è trasmessa dagli elementi visivi dello spettacolo, che non si avvale questa volta dell’ “imagoturgia” di Francesco Pititto, cioè del consueto innesto nell’azione di una partitura di immagini sempre sorprendenti, espressioniste o liriche, proiettate sugli schermi o sui corpi; si tratta qui invece di oggetti e accessori e costumi: una culla, una poltrona-trono bianca, un pupazzetto smembrato, il fallo di lattice, le tuniche lunghe e nere, i volti imbiancati, i tacchi altissimi, i secchi di plastica, lo sversamento di fluidi neri o bianchi, che stiano per sangue o sperma o latte; per converso oggetti che richiamano un’infanzia rotta: il pupazzetto appunto, la spada di legno, le ciocche di Oreste ed Elettra, trecce posticce in un gioco bambino di travestimenti. Segni di un infanzia di affetto tra fratelli, ma insieme presagi del sangue che verrà (le Eumenidi sul finale vestite di tuniche rosse si porranno in testa ciocche simili, come un segno di antica confidenza, di affetti recuperati).
Il corpo smembrato di Agamennone è trasposto nei resti di un pupazzetto in gomma di Paperino, ricordo di vecchie infanzie. Uccidere il marito corrisponde ad aver ucciso l’infanzia di Oreste, la sua innocenza.

Altro segno iconografico importante: la proiezione sullo schermo frontale di frasi e parole, scritte in un corsivo incerto, da scuola primaria. Inizialmente solo scarabocchi, e una spada, come su una lavagna un gessetto maldestro che tracci i resti di un incubo, un subconscio che si manifesta a sprazzi per inchiostro simpatico; poi nella terza parte appaiono le parole chiave dell’itinerario tragico: colpa, morte, assassina, cagna, nuove leggi, giustizia. Quest’ultima parola si ripartisce sulle tuniche delle due Eumenidi, proiettata sul rosso delle stoffe; parola la cui unità si compie nella saldatura garantita dalla prossimità delle due. La giustizia avvicina gli umani? Forse. Anche. Un capovolgimento rispetto al gelido distanziamento iniziale. Del resto le Erinni è per mezzo delle “nuove leggi” che si riavvicinano al mondo umano della corrispondenza d’affetti, della devozione di cui saranno fatte oggetto d’ora in avanti.
Con questi segni di scrittura le attrici a volte interagiscono, come a entrarvi col corpo, nel proscenio estremo. Il rapporto corpo-segno alfabetico-figurale trasposto in una letteralità fredda, inespressiva, quasi minacciosa, tranne che nel finale appunto.

E’ arduo dar conto della sequenza dei fatti narrati che la drammaturgia di Pititto ha come rimescolato in un crogiuolo dalla temporalità spiralica dove è l’Ombra di Clitennestra per esempio nel terzo episodio a ingaggiare il duro confronto col figlio, in una scena in cui uno spadone di legno, anch’esso icona d’infanzia, viene puntato sul ventre gonfio della donna, in una gravidanza che porta il segno dell’isteria, della deformità. E’ uno stratificarsi di immagini, per momenti apicali e per lunghe peregrinazioni nel tessuto della tragedia, di cui rimangono lacerti, nuclei estratti e in parte riscritti. Dettagli che vengono colti e amplificati fino al grottesco, insieme straniando. Per esempio all’accenno di Cassandra che “come un cigno pareva”, la lunga sequenza coreografica di Sandra Soncini sul celebre tema della morte del cigno di Čajkovskij.

E arriviamo a una delle sequenze più forti: una scena a quattro dove un liquido latteo preparato da Clitennestra in un grande secchio di plastica, forse latte in polvere, viene poi versato a turno nella bocca degli altri tre personaggi. E sputato, fatto scorrere sul corpo, accolto. O la vernice nera-sangue che copre il tavolo e viene mostrata, sindone orgiastica, allusione a un’action painting o a un’arte della crudeltà. E poco prima Clitennestra aveva allattato Oreste con entrambi i seni in una scena collocata sul fondo, dietro il velo trasparente, in una specie di natività barbarica, immersa in una dolcezza venata di sopruso.

In generale al corpo delle attrici viene richiesta una prova fisica di coraggio, di auto spoliazione, di abbandono alle prove che via via vengono loro predisposte, che spostano in avanti la generosità verso un limite poco dicibile; ma allo stesso tempo sentiamo la totale sincerità del loro darsi all’atto teatrale.
Ne è un esempio, ma non il solo, la lunga sequenza a terra di Clitennestra-Soncini, quella del cigno, di cui dicevamo poc’anzi: precisa e martellata come un tamburo di carne che volesse sfondare con l’unica arma di una nudità vulnerabile la petrosità armata e quasi amata del pavimento, partner in cui poter affondare e sparire. Soncini stupisce per la resistenza fisica a tanto prolungato impatto, portato in quasi totale nudità, e insieme per la paradossale levità di questa partitura di urti e rimbalzi, eseguita con dedizione totale e notevole tecnica.
Ma anche: la ferocia vocale di Cassandra (Carlotta Spaggiari), la dolce ferinità di Iphigenia-Coro (Valentina Barbarini), lo statuario candore di Atena (Monica Barone), la complicità fraterna di Elettra (Lara Bonvini).

La colonna sonora, palpitazioni elettroniche, sequenze circolari e ossessive, opera del compositore Lillevan, si apre talvolta ad affondi classici nella seconda parte col tema di Čajkovskij, di cui abbiamo detto, che accarezza quasi perfidamente l’orecchio, avvolge, pur straniando l’azione col suo melodrammatico incedere. D’altra parte il pulsare del tessuto sonoro elettronico sposta violentemente l’azione in un dominio non umano, dove sta sospeso su tutto l’angoscioso presagio di una catastrofe interiore, prima che esterna, spirituale prima che storico-mitica.

Le sei attrici, le cosiddette “sensibili”, diversamente abili, e le altre non tali, tutte figure iconiche della compagnia, sono superbe nell’incarnare questo presagio con la loro fisicità estrema, o con quella sorta di strana ironia di un Oreste che sembra essere già oltre la tragedia, lo sguardo anonimo, puro e disincantato insieme, diretto verso un bene futuro che si dà per certo, o posto sul limitare di una caduta nella Storia.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 28 Novembre 2021 10:24

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