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NEMICO (IL) - regia Carmelo Rifici

Il nemico Il nemico Regia Carmelo Rifici

di Julien Green
regia: Carmelo Rifici
con Elisabetta Pozzi
San Miniato, Festa del Teatro, Piazza Duomo, dal 21 al 25 luglio 2007

Avanti, 27 luglio 2007
Corriere della Sera, 2 settembre 2007
Corriere della Sera, 2 settembre 2007
Il Giornale, 7 agosto 2007
Il teatro dell'impossibile

Come ogni anno e ormai da oltre sessanta anni a San Miniato in provincia di Pisa, va in scena la Festa del teatro, un teatro molto particolare quello dello "Spirito" e che riconduce, con il passare del tempo e delle stagioni, a quello che definiamo l'interiorità di ciascuno. Non è impresa facile con i tempi che corrono cercare testi e adattamenti per riproporre al grande pubblico tematiche poco vacanziere e in controtendenza come quello dello "Spirito", ma il tentativo della Fondazione dell'Istituto dramma popolare di San Miniato è un tentativo lodevole che va sostenuto e valorizzato indipendentemente dai risultati più o meno riusciti dei vari cartelloni proposti. Quest'anno Salvatore Ciulla, direttore artistico della Fondazione, ha proposto la realizzazione del testo di Julien Green "Il nemico", affidandone la traduzione a Roberto Buffagni. Un testo difficile, spesso indecifrabile e nello stesso tempo impossibile da rappresentare, tant'è che quella di San Miniato risulta essere la prima assoluta rappresentazione italiana, che nella sua messa in scena è risultata essere non sempre comprensibile e non senza fronzoli stilistici tali da renderla a tratti pesante e noiosa. Nella traduzione di testi ostici e di difficile comprensione come quello di Julien Green, si dovrebbe usare sapientemente la forbice come strumento sapiente di chiarezza tenendo presente che la rappresentazione teatrale ha il compito di rendere fruibile a tutti messaggi di diversa natura e di diversa profondità, e in questo - ahimè - il tentativo visto a San Miniato non ha colto nel segno con i suoi monologhi troppo lunghi e contorti. Il cast prescelto per la messa in scena de "Il nemico" è di primo piano con attori del calibro di Tomaso Ragno e dell'attrice Elisabetta Pozzi diretti dal giovane Carmelo Ricifi. E' principalmente alla regia di Ricifi, nato e cresciuto all'ombra di Luca Ronconi, che si deve il risultato di aver gustato con parziale soddisfazione la rappresentazione dell'impossibile testo di Green. Del giovane talento Ricifi va apprezzato e lodato il tentativo riuscito di non aver scimmiottato il fastidioso virtuosismo fine a se stesso e ne tanto meno la megalomania "scenica" tipica del Maestro Ronconi, e in questo va dato atto di aver visto all'opera un bravo regista capace di brillare di luce propria. Geniali e sincronizzate le musiche, le luci, gli ingressi e le uscite del cast che hanno reso percettibile le mille facce del male, del quale il testo è pieno zeppo e senza le quali sicuramente il risultato sarebbe stato di diverso segno. Ma il parziale successo della messa in scena lo si deve all'interpretazione della brava Elisabetta Pozzi nel ruolo di Elisabeth, sulle cui spalle è gravato inverosimilmente il peso del rendere possibile e fruibile l'impossibile messaggio di Green. In lei l'invasione del male, del demonio, della pazzia è stato percettibile. La Pozzi ha reso visibile il messaggio del combattuto e tormentato cristiano Green e ha trascinato, come mai si è potuto notare in precedenti sue interpretazioni, l'intero cast che è parso a tratti poco convinto della validità dell'intera messa in scena. Poco convincimento impersonato in primis da un Alessio Romano nel ruolo di Jacques de Silleranges, che stranamente non è stato all'altezza del ruolo assegnatogli, e troppo spesso ha viaggiato nella piéce adottando un suo personale copione e sue personali traduzioni con il risultato di lasciare alla solitaria Pozzi il compito di portare lucidità e fruibilità allo spettatore del già di per sé complesso messaggio dell'autore. A Marco Balbi, nel ruolo di Philippe de Silleranges, è toccato un ruolo tutto sommato marginale ma la sua interpretazione è apparsa azzeccata, non è parso mai fuori luogo e fuori tempo, assolutamente lodevole dunque, conoscendo la storia dell'attore milanese e la sua capacità di calarsi in un ruolo particolare e insolito. Al giovane Tommaso Ragno nel ruolo di Pierre va un riscontro più che positivo: bella la sua mimica e la padronanza degli spazi scenici imposti del copione, unico neo forse l'eccessiva timidezza e sudditanza specie nel confronto dell'interpretazione di Alessio Romano. Da estimatore della rassegna dell'antico borgo toscano, spero e auspico che la direzione artistica della Fondazione per la prossima 62esima edizione della Festa del teatro possa proporci un testo più fruibile, meno contorto e più attualizzato e magari di un autore italiano. Confido che il testo futuro sia fondamento reale dell'intera kermesse e del messaggio che intende profondere e che non ci si debba affidare solamente alla professionalità e bravura dei singoli interpreti per la riuscita della stessa. Diversamente sarebbe la morte di quel teatro dello "Spirito" di cui la società, il mondo e il pubblico necessita dopo miriadi di rappresentazioni stupide, scialbe di cui i nostri cartelloni sono pieni zeppi e che inesorabilmente portano ad un appiattimento negativo della già bistrattata cultura.

Ermanno Caccia

In quella famiglia si fa l'amore a tre

1785, un castello francese. Il conte ha una bella moglie, ma è impotente per ferita; la donna è concupita, invano, dal di lui fratello minore. Sopraggiunge però un terzo fratello, anzi fratellastro, dei due, gran dongiovanni ai suoi tempi, ma poi, per cinque anni, frate. Abbandonata la tonaca quando si è scoperto ancora schiavo del proprio erotismo, questo Pierre vuole ora sedurre la cognata, e ci riesce. Geloso, il fratellastro scapolo lo fa ammazzare da sicari. Lei a questo punto vorrebbe farsi monaca, ma il marito glielo impedisce, ribadendo i suoi diritti, e ora ammettendo il fratellastro superstite a membro di un sinistro «ménage à trois».

Sembra la trama di un feuilleton, ma negli anni 1950 Julien Green, cercando di coniugare il cinismo di un Laclos con certe problematiche cattoliche di allora, quando il libertinaggio sembrava chissà perché il peccato supremo, vi impiantò sopra un verboso dibattito tra Bene e Male: Pierre si è consegnato orgogliosamente al «Nemico» del titolo, Elizabeth è una libera pensatrice che quando sceglie il peccato crede di farlo con lucidità . La traduzione di Roberto Buffagni, molto ricalcata sulla lingua originale, non fa che accentuare la polverosità della tematica.

Proponendo questo testo forse insalvabile alla sessantunesima Festa del Teatro di San Miniato, il giovane regista Carmelo Rifici ha tentato di ravvivarlo tagliandolo (adesso dura «solo» due ore e mezza intervallo compreso) e imponendo agli interpreti, ogni tanto, incongrui balletti meccanici (marionette sono, altro che libero arbitrio!). Inoltre i costumi settecenteschi, insolitamente mesti per uno spettacolo italiano, diventano via via abiti moderni, sì, proprio come nei recenti Goldoni di Lluì­s Pasqual e di Luca De Fusco. Elisabetta Pozzi, Tommaso Ragno e gli altri obbediscono diligentemente e consegnano con chiarezza, microfonatissimi, le loro sterili per quanto enfatiche elucubrazioni.

Masolino d'Amico

{2jtoolbox_content tabs id:1 title:Corriere della Sera, 2 settembre 2007}Un triangolo (e dialoghi filosofici) nel dramma con Elisabetta Pozzi

Abisso dei sensi per la contessa

Nel dramma Il Nemico scritto nel 1950 da Julien Green, in prima nazionale alla LXI Festa del Teatro a San Miniato, un ragionare cinico alla Choderlos de Laclos si complica di problematiche morali e religiose per impaludarsi in un verboso dibattito tra Bene e Male e disperdersi in una trama da feuilleton. In un castello della Francia nel 1785, Philippe, un cupo conte reso impotente da una ferita, la sua bella moglie Elisabeth e Jacques, il fratello di lui, compongono un triangolo amoroso che viene spezzato dal ritorno a casa di Pierre, fratellastro del conte, un tenebroso ex dongiovanni che fattosi frate non resiste alla tentazione della carne, getta il saio alle ortiche e si installa al castello con l' intenzione di sedurre Elisabeth. E ci riesce: la tentazione è donna e la castità è l' inferno del corpo. Jacques geloso fa uccidere il fratellastro. Dopo il delitto Elisabeth sconvolta vuol chiudersi in un convento, ma il marito glielo impedisce. E per averla accanto a sé, la «riconsegna» a Jacques pregandolo di ottenerne nuovamente «i favori», perché tutto torni ipocritamente tranquillo come prima. Ma non per Elisabeth che, distrutta dal dolore e dal rimorso, sarà tra loro solo un corpo senza volontà. Una trama contorta complicata da tentazioni diaboliche, da rovelli spirituali che si esplicitano in dialoghi filosofico-esistenziali farraginosi, in spasmi religioso-morali che hanno come centro l' uomo che nel suo slancio verso ciò che è bene, giusto e santo cammina sull' orlo dell' abisso: l' abisso delle passioni, della sessualità, dell' accidia. Il regista Carmelo Rifici alleggerisce il testo con decisi tagli e cerca una strada antinaturalista che esalti il gotico di una storia di sangue, sensi e tribolazioni dell' anima. Ma Rifici, pur guidando con bella mano gli attori, spezzando il naturalismo con brevi balletti meccanici che fanno dei personaggi vuote marionette, cancellando il tempo con una corsa dei costumi dal Settecento a oggi, non è riuscito a liberarsi dei lacciuoli di un testo troppo carico di intenzioni esplicite. Comunque ottima la prova di Elisabetta Pozzi che disvela a pieno il tormento interiore e lo spaesamento dell' anima di Elisabeth. Bravi Tommaso Ragno, un Pierre cinico suadente e Marco Balbi un Philippe di algido egoismo.

Magda Poli{2jtoolbox_content tabs id:1 title:Il Giornale, 7 agosto 2007}Nel roveto ardente che battaglia tra Dio e il Diavolo

Quando non speravamo più nella sua venuta, giunge a noi, per un ciclo limitato di repliche, uno dei capolavori drammatici del ventesimo secolo. Quel Nemico dove Julien Green esponeva sotto la maschera di un diciottesimo secolo di maniera la domanda più angosciosa cui è soggetto un pensatore cattolico: fino a che punto Dio può coincidere col Demone degli abissi e lo stato di grazia assumere l’aspetto di un totale cedimento della coscienza? Green non risponde a questo apocalittico interrogativo rifugiandosi dietro uno stile che evita qualsiasi perentoria risposta mentre, in apparenza, si piega alla scioltezza narrativa della replica. Cosa accade infatti nella pièce? In un castello segregato tra i colli e i corsi d’acqua dell’Ile de France durante un rigidissimo inverno alle soglie della Rivoluzione, si affrontano tre personaggi emblematici di uno stato di crisi.
Un’aristocratica soggetta a un consorte impotente che per noia si è concessa al cognato, cioè quanto basta a fare del triangolo il più frivolo dei divertissement. Ma ecco piombare in questo menage l’anomalia rappresentata da un monaco, fratello naturale della coppia maschile che, gettata la tonaca e venduta l’anima al diavolo in cambio del più assoluto tra gli amori terreni, sconvolge l’abbietta pianificazione familiare. Rivelando ad Elisabeth la sua appassionata natura e portandola allo sconvolgimento dei sensi prima che l'ex amante della donna si vendichi ordinandone l’assassinio e tutto rientri nei ranghi. Ad eccezione della protagonista che, in preda a un delirio che ne ha contagiato l’anima, può consegnare ai due spaiati cavalier serventi nient’altro che la propria nuda apparenza: un corpo privo dello spirito, preda di sollecitazioni in pericoloso equilibrio tra Dannazione e Caduta. Ora di questa materia incandescente, di tale fragile levità da confluire nel territorio della prosa poetica, Carmelo Rifici regista di questo allestimento, ha fatto una favola più decadente che gotica.
Ne è derivato un patetico squilibrio di piani tra parola e gesto che ha messo in forse la comprensione di questa straordinaria parabola. Fortunatamente illuminata dal talento e dall’acuta sensibilità di una grande interprete come Elisabett

In quella famiglia si fa l'amore a tre

1785, un castello francese. Il conte ha una bella moglie, ma è impotente per ferita; la donna è concupita, invano, dal di lui fratello minore. Sopraggiunge però un terzo fratello, anzi fratellastro, dei due, gran dongiovanni ai suoi tempi, ma poi, per cinque anni, frate. Abbandonata la tonaca quando si è scoperto ancora schiavo del proprio erotismo, questo Pierre vuole ora sedurre la cognata, e ci riesce. Geloso, il fratellastro scapolo lo fa ammazzare da sicari. Lei a questo punto vorrebbe farsi monaca, ma il marito glielo impedisce, ribadendo i suoi diritti, e ora ammettendo il fratellastro superstite a membro di un sinistro «ménage à trois».

Sembra la trama di un feuilleton, ma negli anni 1950 Julien Green, cercando di coniugare il cinismo di un Laclos con certe problematiche cattoliche di allora, quando il libertinaggio sembrava chissà perché il peccato supremo, vi impiantò sopra un verboso dibattito tra Bene e Male: Pierre si è consegnato orgogliosamente al «Nemico» del titolo, Elizabeth è una libera pensatrice che quando sceglie il peccato crede di farlo con lucidità . La traduzione di Roberto Buffagni, molto ricalcata sulla lingua originale, non fa che accentuare la polverosità della tematica.

Proponendo questo testo forse insalvabile alla sessantunesima Festa del Teatro di San Miniato, il giovane regista Carmelo Rifici ha tentato di ravvivarlo tagliandolo (adesso dura «solo» due ore e mezza intervallo compreso) e imponendo agli interpreti, ogni tanto, incongrui balletti meccanici (marionette sono, altro che libero arbitrio!). Inoltre i costumi settecenteschi, insolitamente mesti per uno spettacolo italiano, diventano via via abiti moderni, sì, proprio come nei recenti Goldoni di Lluì­s Pasqual e di Luca De Fusco. Elisabetta Pozzi, Tommaso Ragno e gli altri obbediscono diligentemente e consegnano con chiarezza, microfonatissimi, le loro sterili per quanto enfatiche elucubrazioni.

Masolino d'Amico

{2jtoolbox_content tabs id:1 title:Corriere della Sera, 2 settembre 2007}Un triangolo (e dialoghi filosofici) nel dramma con Elisabetta Pozzi

Abisso dei sensi per la contessa

Nel dramma Il Nemico scritto nel 1950 da Julien Green, in prima nazionale alla LXI Festa del Teatro a San Miniato, un ragionare cinico alla Choderlos de Laclos si complica di problematiche morali e religiose per impaludarsi in un verboso dibattito tra Bene e Male e disperdersi in una trama da feuilleton. In un castello della Francia nel 1785, Philippe, un cupo conte reso impotente da una ferita, la sua bella moglie Elisabeth e Jacques, il fratello di lui, compongono un triangolo amoroso che viene spezzato dal ritorno a casa di Pierre, fratellastro del conte, un tenebroso ex dongiovanni che fattosi frate non resiste alla tentazione della carne, getta il saio alle ortiche e si installa al castello con l' intenzione di sedurre Elisabeth. E ci riesce: la tentazione è donna e la castità è l' inferno del corpo. Jacques geloso fa uccidere il fratellastro. Dopo il delitto Elisabeth sconvolta vuol chiudersi in un convento, ma il marito glielo impedisce. E per averla accanto a sé, la «riconsegna» a Jacques pregandolo di ottenerne nuovamente «i favori», perché tutto torni ipocritamente tranquillo come prima. Ma non per Elisabeth che, distrutta dal dolore e dal rimorso, sarà tra loro solo un corpo senza volontà. Una trama contorta complicata da tentazioni diaboliche, da rovelli spirituali che si esplicitano in dialoghi filosofico-esistenziali farraginosi, in spasmi religioso-morali che hanno come centro l' uomo che nel suo slancio verso ciò che è bene, giusto e santo cammina sull' orlo dell' abisso: l' abisso delle passioni, della sessualità, dell' accidia. Il regista Carmelo Rifici alleggerisce il testo con decisi tagli e cerca una strada antinaturalista che esalti il gotico di una storia di sangue, sensi e tribolazioni dell' anima. Ma Rifici, pur guidando con bella mano gli attori, spezzando il naturalismo con brevi balletti meccanici che fanno dei personaggi vuote marionette, cancellando il tempo con una corsa dei costumi dal Settecento a oggi, non è riuscito a liberarsi dei lacciuoli di un testo troppo carico di intenzioni esplicite. Comunque ottima la prova di Elisabetta Pozzi che disvela a pieno il tormento interiore e lo spaesamento dell' anima di Elisabeth. Bravi Tommaso Ragno, un Pierre cinico suadente e Marco Balbi un Philippe di algido egoismo.

Magda Poli

Nel roveto ardente che battaglia tra Dio e il Diavolo

Quando non speravamo più nella sua venuta, giunge a noi, per un ciclo limitato di repliche, uno dei capolavori drammatici del ventesimo secolo. Quel Nemico dove Julien Green esponeva sotto la maschera di un diciottesimo secolo di maniera la domanda più angosciosa cui è soggetto un pensatore cattolico: fino a che punto Dio può coincidere col Demone degli abissi e lo stato di grazia assumere l’aspetto di un totale cedimento della coscienza? Green non risponde a questo apocalittico interrogativo rifugiandosi dietro uno stile che evita qualsiasi perentoria risposta mentre, in apparenza, si piega alla scioltezza narrativa della replica. Cosa accade infatti nella pièce? In un castello segregato tra i colli e i corsi d’acqua dell’Ile de France durante un rigidissimo inverno alle soglie della Rivoluzione, si affrontano tre personaggi emblematici di uno stato di crisi.
Un’aristocratica soggetta a un consorte impotente che per noia si è concessa al cognato, cioè quanto basta a fare del triangolo il più frivolo dei divertissement. Ma ecco piombare in questo menage l’anomalia rappresentata da un monaco, fratello naturale della coppia maschile che, gettata la tonaca e venduta l’anima al diavolo in cambio del più assoluto tra gli amori terreni, sconvolge l’abbietta pianificazione familiare. Rivelando ad Elisabeth la sua appassionata natura e portandola allo sconvolgimento dei sensi prima che l'ex amante della donna si vendichi ordinandone l’assassinio e tutto rientri nei ranghi. Ad eccezione della protagonista che, in preda a un delirio che ne ha contagiato l’anima, può consegnare ai due spaiati cavalier serventi nient’altro che la propria nuda apparenza: un corpo privo dello spirito, preda di sollecitazioni in pericoloso equilibrio tra Dannazione e Caduta. Ora di questa materia incandescente, di tale fragile levità da confluire nel territorio della prosa poetica, Carmelo Rifici regista di questo allestimento, ha fatto una favola più decadente che gotica.
Ne è derivato un patetico squilibrio di piani tra parola e gesto che ha messo in forse la comprensione di questa straordinaria parabola. Fortunatamente illuminata dal talento e dall’acuta sensibilità di una grande interprete come Elisabetta Pozzi.

Enrico Girardi

Ultima modifica il Domenica, 06 Ottobre 2013 10:48

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