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NATURALMENTE ZOPPICA UN PO' - regia Andrea Kaemmerle

"Naturalmente zoppica un po'", regia Andrea Kaemmerle "Naturalmente zoppica un po'", regia Andrea Kaemmerle

di Alessandro Schwed
con Riccardo Goretti, Andrea Kaemmerle e Alessandra Princi
regia di Andrea Kaemmerle
Visto il 5 agosto 2016, presso Il Frantoio di Vicopisano (Pisa)

www.Sipario.it, 6 agosto 2017

VICOPISANO (Pisa) - Una riflessione sul destino dell'uomo sulla Terra - su chi o cosa sia realmente a guidarlo nelle sue scelte, a far accadere quelle che all'apparenza sembrano coincidenze fortuite - condotta sul filo di una comicità "ibrida", che all'amarezza di matrice yiddish affianca la pura schiettezza toscana. Naturalmente zoppica un po' è una commedia caleidoscopica, a tratti cinica, a tratti romantica, a tratti surreale, sospesa fra cielo e terra come se le scene fossero altrettanti quadri di Marc Chagall. Andrea Kaemmerle - che ne ha curata anche la regia, e Riccardo Goretti, si dimostrano un duo artisticamente affiatato, capace di regalare al pubblico spunti d'intensa ilarità e riflessione.
Un dibbuk, spirito maligno della tradizione ebraica, scende sulla Terra per indurre alle tentazioni del sesso un aspirante rabbino, tale Leo, che da sempre pratica nella vita la castità più assoluta. Se riuscirà nell'impresa, il dibbuk otterrà un promozione nella gerarchia degli inferi. Questa "missione satanica" è lo spunto per un testo drammaturgico intenso e profondo, che indaga le fragilità e i dubbi dell'individuo contemporaneo, e insieme ironizza sull'eccessivo ardore della fede, che allontana l'individuo dai suoi simili e da se stesso.
Il dibbuk interpretato da Kaemmerle è un autentico "povero diavolo", cinico per necessità ma stanco del mestiere, che anela alla comica promozione infernale così come un qualsiasi impiegato anela alla pensione. L'autore, Alessandro Schwed, immagina un dèmone molto terrestre, e Kaemmerle asseconda con bravura questa vena, aggirandosi sul palco con passo pesante, esprimendosi con un divertente accento slavo che sembra scaturire da un'epoca lontana, dalle leggende medievali di Mala Strana e di Heidelberg.
Il dèmone, in un certo senso è anche un critico acuto della società contemporanea, nel suo lamentarsi di quanto sia penoso entrare nei corpi degli individui d'oggi, inquinati da cibi scadenti e inquinati, rispetto alla purezza che caratterizzava i contadini medievali, che si cibavano di alimenti naturali. Un modo per riflettore scherzosamente su quel veleno esistenziale e non solo che oggi ci portiamo dentro, contaminati da additivi, molecole di sintesi, ormoni, coloranti, inebetiti dalle luci, dal rumore, dalla pubblicità, incapaci di apprezzare il silenzio, il buio, le stelle. Individui che, spiega il dibbuk con paradossale, dovrebbero essere prima santificati e purificati; solo così li potrebbe tentare, senza correre il rischio d'infettarsi.
Ma con Leo è diverso, sembra essere l'unico, o quasi, uomo puro sulla Terra, anche per il suo fermo proposito di castità. Per questo, sin dal primo incontro in sinagoga, il dibbuk insinua in lui il dubbio sull' esistenza di Dio, basandosi sul semplice assunto secondo cui ciò che non si manifesta non esiste. Basta questo a mettere in crisi le certezze dell'aspirante rabbino, che appunto si rende conto della mancanza di segni da parte dell'Essere Superiore, di un qualcosa che renda percettibile la sua presenza. Scatta in questo giovane studioso un atteggiamento psicologico perverso che lo allontana da Dio in quanto, concentrandosi troppo sull'esteriorità delle sue manifestazioni, smarrisce la possibilità di avvertirlo dentro di sé. E d'improvviso si scopre vuoto, solo, perso in una crisi mistica a tratti patetica, però vera, le cui origini risalgono all'infanzia difficile del giovane, con la separazione dei genitori, la morte prematura della madre, il trasferimento a New York (dalla campagna pisana); troppe cose accadute troppo in fretta, cose troppo grandi per non scuotere almeno un po' la vita e la mente di un adolescente.
Prima ancora di essere aspirante rabbino, Leo è un giovane uomo rimasto "scottato" dall'esistenza e diffidente delle donne, alle quali ha fatto voto di rinunciare per sempre, donandosi completamente a Dio. Eppure, le parole del dibbuk lo gettano in crisi profonda, e Riccardo Goretti, pur nell'atmosfera da commedia del testo, lascia emergere quel dramma interiore, quel violento tumulto che pare una crisi mistica, ma che potrebbe anche essere solitudine.
Con surreale comicità, riecheggiando Woody Allen, Schwed accompagna il futuro rabbino in una seduta di psicanalisi dove il posto del medico è preso dal malvagio dibbuk, il quale altro non fa che aumentare i dubbi del giovane, convincendolo che accompagnarsi a una donna sia l'unico modo per ritrovare la pace perduta. Pur riluttante, Leo cede, e si rivolge a un tale Salzmann, sensale di matrimoni, nel corpo del quale si insinua, ancora una volta, il perfido dibbuk, il quale come un piazzista di merce qualsiasi, gli propone una donna dopo l'altra, con il linguaggio del commerciante navigato; scene divertenti, a tratti improbabili, che toccano il climax nell'unico incontro reale (le altre donne vengono tutte scartate): Miss Lily, quella che "zoppica un po'", (un esilarante Kaemmerle che rivela tutta la sua bravura clownesca), è in realtà lo stesso dibbuk, che però, per una sua inaspettata debolezza, rinuncia a concupire e a far dannare il giovane innamorato. Tutto sembra perduto, finché, Salzmann/dibbuk torna da Leo, e dal cappello che cade a terra, (forse per caso, forse per calcolo), fuoriesce la fotografia di Anna, la sua giovane figlia, bella e sensuale, dalla quale Leo resta profondamente colpito, e quando il padre adombra il sospetto che la ragazza sia una prostituta, il giovane se ne innamora definitivamente, forse pensando a lei come un'anima da redimere. A questo punto, il dibbuk considera conclusa la sua missione, è sicuro di riuscire a far perdere la verginità a Leo e a farlo dannare, guadagnando l'agognata promozione nella gerarchia infernale. E quando Anna (la bella e sensuale Alessandra Princi), bussa alla porta del giovane, questi le si getta fra le braccia. Ma niente va come previsto: fra i due sboccia l'amore vero, quello sincero e profondo, che nasce dal cuore e inclina al bene, che aiuta ad accettare i difetti del partner, a perdonarli, così come Dio insegna. Leo non finisce dannato, così come il dibbuk non scende negli inferi, ma viene beatificato per aver tratto il giovane dalla sua solitudine. E Salzmann, non più posseduto, gioisce in cuor suo per la sorte della figlia, che ha ora la possibilità di rifarsi una vita. Un amore nato per caso, o per benevolenza di Dio, quello stesso Dio che non rispondeva alle invocazioni di Leo, ma che forse non ha mai smesso di vegliarlo dall'alto dei cieli.
Lo spettacolo si muove su un ritmo serrato, una lotta continua e senza tregua fra l'aspirante rabbino e il tenace dibbuk, una lotta che è specchio di quella fra l'uomo e quel Dio che gli sfugge, fra l'uomo e le sue paure; infatti, pur parlando molto della divinità, lo spettacolo guarda all'individuo, alle sue debolezze, alla necessità di trovare un punto cardinale che sostenga una coscienza in fondo inquieta. La ricerca di Dio è stata forse la prima attuata dall'umanità, che si poi scoperta affetta dal "vizio di amare", necessario a rendere sopportabile il soggiorno sulla Terra. Inaspettatamente, l'aspirante rabbino scopre quell'amore che, per dirla con Dante "move il sole e l'altre stelle"; tuttavia, cambiando prospettiva, Leo s'innamora perché, citando Woody Allen e la scena finale di Annie Hall, "il genere umano ha bisogno di uova", ovvero di una certezza più o meno fondata, comprata anche a prezzo di un po' d'illusione. Forse Anna non è la creatura pura che avrebbe voluto, eppure la accetta per com'è, anche forse chiudendo gli occhi sul suo passato.
Uno spettacolo che è pura commedia dell'arte (anche grazie ai divertenti siparietti improvvisati dall'ormai affiatata coppia Kaemmerle/Goretti), ma che la vena mitteleuropea di Schwed (fiorentino d'origine ungherese) riveste di considerazioni esistenziali, ponendo domande senza offrire risposte.
A zoppicare un po', in fondo, sono le nostre coscienze, le nostre certezze, e una risata può fungere da utile "stampella".

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Lunedì, 07 Agosto 2017 11:48

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