di Simone Cristicchi e Jan Bernas
Scene: Paolo Giovanazzi
Luci: Nino Napoletano
, Musiche: musiche e canzoni inedite Simone Cristicchi
Musiche di scena e arrangiamenti: Valter Sivilotti
Regia: Antonio Calenda
Produzione: Promo Music - Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Interpreti: Simone Cristicchi con la FVG Mitteleuropa Orchestra diretta da Valter Sivilotti
Trieste, Politeama Rossetti 22 ottobre 2013
Sembra ormai lontano l'adolescente Simone Cristicchi che ogni giorno, per raggiungere il suo liceo, passava davanti al quartiere "Giuliano Dalmata", interrogandosi sull'identità dell'uomo cui era stata intitolata quella zona sulla Laurentina... L'ingenuità di allora corrisponde purtroppo all'ignoranza e all'indifferenza di molti italiani di oggi che ancora non conoscono un pezzo di storia che è anche la loro storia. Sì perché quell'esodo, come "una lenta emoraggìa che dura dieci anni", è pesato sulla vita di 350.000 italiani. Persone che, dopo la seconda guerra mondiale, quando l'Istria, Fiume e Zara furono assegnate alla Yugoslavia perché l'Italia era rimasta sconfitta, avevano scelto di fuggire dalla nuova realtà ostile comunista, dimenticando i luoghi cari dove erano nati per affrontare un futuro di incertezze. Un uragano del destino li ha trasformati in esuli senza patria, costretti ad affrontare un immenso trasloco. Ne hanno lasciato traccia tangibile soprattutto nel Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, città dove si sono fermati ben in 70.000. Duemila metri quadrati di masserizie ("simbolo di un'enorme amnesia") che nessuno ha mai inspiegabilmente reclamato: oggetti quotidiani, arredi scolastici e di negozi da assemblare, testiere di letti, bambole, fotografie, valigie, orologi... ma soprattutto un cumulo enorme di sedie accatastate... pronte a raccontare, in un cimitero delle cose "dove riposa non in pace la vita quotidiana", le storie di "un tessuto sociale stracciato e mai ricomposto".
Sono passati più di 60 anni da quell'esodo. Eppure nessuno ne aveva mai parlato prima con tanta trepidante poesia, con la forza della tragedia che ritorna attuale, come ha fatto l'artista romano al Politeama Rossetti di Trieste (affollato fino all'inverosimile). Poeta e cantore trasognato, nonché attore di toccante versatilità, Cristicchi è stato protagonista di un evento musical-civile che già prima di andare in scena aveva suscitato polemiche ideologiche di richiamo massmediatico. Inutilmente però. Il disegno spettacolare di "Magazzino 18", complesso, raffinato e dall'alto impatto emotivo, si fonda su una ricognizione storica molto dettagliata, lontana da facili faziosità che condanna i totalitarismi e le efferatezze perpetrate contro la povera gente (testo scritto dallo stesso Cristicchi con Jan Bernas). Si parla della politica di italianizzazione forzata del fascismo, del campo di concentramento italiano ad Arbe, ma anche di foibe e di occupazione titina. E ancora dei campi profughi, dei cantierini monfalconesi, degli esuli scappati dalla terra amata (considerati al contempo "fascisti" dagli abitanti della Yugoslavia e "comunisti" dagli italiani), dei "cantierini monfalconesi" e delle aporie irrisolte dei "rimasti". Le storie delle cose umili abbandonate, i "fantasmi delle masserizie" sono il pretesto per gli abitanti di una regione di confine, fragile e mistilingue, di confrontarsi in modo doloroso con il proprio passato.
Quello che è emerso alla fine è un senso di profonda umanità: la parola che crea in teatro ed invera una vibrante realtà hic et nunc si è sposata con naturalezza con l'idea che la scena deve essere - secondo il regista Antonio Calenda – "luogo della pietas e del perdono", della pacificazione. Le canzoni inedite di Cristicchi, le musiche e gli arrangiamenti di Valter Sivilotti che ha diretto anche dal vivo la FVG Mitteleuropea Orchestra, hanno poi costituito il contraltare perfetto alla durezza del racconto, simile a un puzzle della memoria che si compone a poco a poco, potenziandolo drammaticamente anche con la partecipazione dei giovanissimi del Laboratorio Starts Lab diretto da Luciano Pasini.
Un omaggio sentito e commovente a un'Italia che ha perso una parte di se stessa, accolto trionfalmente nelle recite triestine.
Elena Pousché