di Yan Duyvendak (NL)
regia Imanol Atorrasagasti
drammaturgia Nicole Borgeat
distribuzione e amministrazione Morris Mendi, Nataly Sugnaux-Hernandez
coproduzione Centre pour l'Image Contemporaine (sgg*) saint-gervais genève; Fonds d'Art Contemporain de la Ville de Genève (Fmac); La nuit de la science, Musée d'histoire des sciences de la Ville de Genève
Festival Contemporanea, Teatro Magnolfi, Prato, 28 settembre 2012
Ci sono luoghi in cui, più che in altri, è possibile intravedere il futuro, intuire il suo fluire, calcarne i percorsi: uno di questi luoghi è il Festival Contemporanea di Prato, dove nuove e collaudate voci del teatro italiano ed europeo propongono la loro personale idea di dove il mondo, e l'arte, stanno andando.
In questo contesto, particolarmente significativa è la proposta dell'artista olandese Yan Duyvendak, che presenta una singolare e affascinante riflessione sugli "schermi" della vita e sull'eroismo calato nel reale del celebre protagonista di Matrix, Neo.
Nella prima performance – così si può chiamare un teatro che abbandona la parola come strumento fondativo del suo senso – Self service, Duyvendak mette in scena una coreografia che ha come protagonista lo schermo di un televisore: nelle sue mani l'apparecchio attraversa e abita il palco scarno, arredato da un parallelepipedo di plastica e da una videocamera puntata su un altro schermo, però appeso, e piatto. Ad accompagnare i diversi momenti dello spettacolo, frammenti di racconti in prima persona ripetuti in tono monocorde: una storia d'amore che non riesce a finire, la sensazione di onnipotenza del salvare una vita, l'onirica esperienza di un cane soccorso da un'auto di passaggio.
Nelle mani di Yan il tozzo televisore quadrato si trasforma continuamente, e dalla sua funzione originale di trasmettitore di immagini scivola subito via per diventare qualcos'altro: le immagini che inquadra ad un tratto iniziano a seguire i movimenti del corpo che lo sta trasportando, instillando la considerazione, irragionevole, che quella che ha in mano sia una videocamera..una videocamera che riprende un mondo che effettivamente non c'è.
Diventa quinti finestra che si affaccia su un cortile, e ancora, di sorpresa, un finestrino da cui l'artista osserva il paesaggio scorrere davanti a sé; si trasforma, infine, anche quando è girato dalla parte opposta allo spettatore: diventa scatola nera, fastidiosa traghettatrice della nostra immaginazione.
La struttura di My name in Neo, seconda performance dell'artista olandese, è all'apparenza più semplice e al contempo efficace: vestito con il famoso soprabito nero del protagonista del film del fratelli Wachowski, Duyvendak riproduce in maniera precisa, in simultanea, tutti i movimenti compiuti dal protagonista di Matrix, Neo, nella famosa scena della rivelazione della sua identità di Eletto, e nell'ultima lotta contro l'agente Smith. Un'idea semplice, si diceva, ma di grande effetto: mentre il nostro eroe cinematografico non sembra compiere nessun particolare sforzo, e rimane composto e affascinante nel suo colletto nero e gli occhiali scuri (non per niente è l'Eletto), il nostro eroe in carne ed ossa inizia a sudare molto, e molto presto, e arriva alla fine praticamente esangue, madido di sudore.
Lo spettacolo finisce così, semplicemente, con la fine del film, lasciando un interrogativo: i veri supereroi sono quelli palesati dalla nostra fantasia, o quelli che si celano nella realtà?
Aeffe