di Orson Welles
adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di Herman Melville
traduzione Cristina Viti
uno spettacolo di Elio De Capitani
costumi Ferdinando Bruni
musiche dal vivo Mario Arcari, direzione del coro Francesca Breschi
maschere Marco Bonadei, luci Michele Ceglia, suono Gianfranco Turco
con Elio De Capitani
e Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari
coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
durata 2 ore e 20 minuti + intervallo
Lo spettacolo è dedicato alla memoria di Gigi Dall’Aglio
Roma – Teatro Vascello dall’11 al 16 marzo 2025
Il teatro è fantasia, diceva Alberto Savinio. E, aggiunge Elio De Capitani col suo Moby Dick alla prova, anche capacità di entrare e uscire in ruoli all’opposto (scoprendone le similarità) e storie diverse. Per questo lo spettacolo, diretto e interpretato da De Capitani, approdato – è proprio il caso di dirlo – al Teatro Vascello, inizia con una compagnia di attori che vuole provare Re Lear. E poi, all’arrivo del capocomico, ecco che si cambia storia decidendo di provare una riduzione dell’intramontabile romanzo di Melville Moby Dick. Il testo di Orson Welles non è solo il tentativo di portare sul palcoscenico una storia complessa e ricca di richiami filosofici e teologici. Ma, attraverso la metafora della Balena Bianca inseguita dall’irreprensibile Capitano Achab, si cerca di indagare le sfumature del Sé umano con le quali tutti abbiamo a che fare. E che sono, elencandone alcune a caso senza pretesa di esaustività: l’odio, il culto dell’ego, la vendetta, la ricerca per appagare sé stessi e non per giungere a qualcosa di inatteso in grado di arricchire chi fa il viaggio e con lui lo condivide. E così via. De Capitani, nei panni del capocomico di questa compagnia e prima che la prova inizi, sollecita il pubblico a partecipare. A partecipare con la fantasia, come il buon teatro vuole. Tanto che la nave non viene rappresentata, ma evocata attraverso i canti della flotta, un grande telo sullo sfondo a simboleggiare la vela – e successivamente il mare –, dei tavoli in acciaio forniti di ruote per spostarli agevolmente sui quali, battendoci sopra, viene evocata l’atmosfera della remata. A completare il tutto, corde parallele che tengono panche di legno in orizzontale sulle quali, nella finzione scenica, siedono i marinai col compito di avvisare quando vedranno Moby Dick emergere dalle acque. Il resto è evocato dalle parole. Cioè, dal modo col quale esse vengono interpretate dagli attori. I quali, tutti bravissimi, scelgono un registro che si discosta dalla lettura quel tanto che basta per dare l’idea di aver aderito al personaggio ma con la giusta distanza come se lo si stesse conoscendo e approfondendo davanti al pubblico in sala. Escamotage che ha consentito a Moby Dick alla prova di mantenere desta l’attenzione dello spettatore nonostante la storia sia notissima. Anche la scena finale del combattimento fra Achab e la Balena Bianca, affidata al racconto simultaneamente rappresentato in modo essenziale da De Capitani, ha consentito l’estraniamento dall’azione in sé focalizzandosi sul suo significato simbologico. Il quale si racchiude nella morte, simultanea quasi, di Moby Dick e il suo inseguitore, dell’odio fatto persona e del suo oggetto, della sua proiezione. A causa dei quali tutti ne hanno fatto spesa, morendo vittime di un sentimento non loro, non condiviso e al quale non si sono opposti (e neppure hanno tentato). Ecco la metafora che, a nostro avviso, navigando fra Melville e Orson Welles, De Capitani ha voluto offrirci col suo Moby Dick alla prova. Pierluigi Pietricola