IL GABBIANO
prima tappa, di Anton Čechov, traduzione Fausto Malcovati, regia Leonardo Lidi,
con (in o.a.) Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
Scene e luci Nicolas Bovey, costumi Aurora Damanti, suono Franco Visioli, assistente alla regia Noemi Grasso.
ZIO VANJA
seconda tappa, di Anton Čechov, traduzione Fausto Malcovati, regia Leonardo Lidi,
con (in o.a.) Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
Scene e luci Nicolas Bovey, costumi Aurora Damanti, suono Franco Visioli, assistente alla regia Alba Porto.
IL GIARDINO DEI CILIEGI
terza tappa, di Anton Čechov, traduzione Fausto Malcovati, regia Leonardo Lidi,
con (in o.a.) Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna.
Scene e luci Nicolas Bovey, costumi Aurora Damanti, suono Franco Visioli, assistente alla regia Alba Porto.
Una produzione Teatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi.
Al teatro Arena del Sole di Bologna 11 gennaio 2025
È indubbio che Anton Čechov segna un passaggio importante nella storia del teatro Europeo, apparso alla cuspide del cosiddetto “Teatro Borghese” che si contorceva ormai nelle sue contraddizioni alle quali i limpidi e dolorosi tentativi dei grandi nordici Ibsen e Strindberg offrivano l'evidenza dei nodi ma non la loro risoluzione. Così, scrive ancora Troyat a proposito de Il gabbiano: “l'interesse della pièce non stava però nell'intrigo, fra l'altro piuttosto banale, quanto nel tono dei dialoghi, basato su un gioco di finezze, di allusioni e di sviluppi inespressi. L'azione era sostituita dal clima psicologico..” Credo che Leonardo Lidi, e ora veniano alla sua Maratona Čechov, abbia avuto piena consapevolezza del distacco che il grande scrittore russo aveva verso i suoi personaggi (e la vita stessa forse) convinto che solo così, senza 'personale' coinvolgimento, ne potesse essere sussunto il significato più profondo e più universalmente disponibile, per sé stesso innanzitutto, per il lettore prima e per lo spettatore poi. È un viaggio teatrale, questo di Leonardo Lidi, in tre tappe ma profondamente unitario che anche visivamente, nelle scenografie e nell'ambiente musicale, mostra la continuità fin temporale di quelle narrazioni che mentre si evolvono di epoca in epoca rimangono fedeli a se stesse, perché Čechov continua a dirci de te fabula narratur, continua cioè a farci capire che di noi si tratta, della nostra essenza più irriducibile che solo nella di essa rappresentazione può trovare il modo di essere capita e di diventare consapevole. La prima è l'ironia capace di suscitare quel 'riso' che, come il rasoio di Occam riusciva a separare l'essenza dal suo contenitore, riesce a separare il significante ed il significato mostrandoci le due facce talora comiche del nostro rapporto con la vita, la sua superficie e la profondità ribollente che la alimenta. A partire da Il gabbiano relativamente al quale un commentatore scrisse all'epoca del suo esordio: “In palcoscenico vi è la vita stessa, con le sue tragiche unioni, con la sua eloquente sventatezza e le sue silenziose sofferenze: la vita quotidiana accessibile a tutti e che quasi nessuno comprende nella sua crudele e intima ironia”. Con Zio Vanja, la tappa seconda approda 'visivamente' agli anni sessanta del secolo breve, gli anni del sussulto sociale che ben rappresenta l'intricata rete tra rapporti personali di subordinazione e rapporti sociali di prevaricazione, all'insegna di una ipocrisia che è finta condivisione di valori e aspettative mentre ironicamente nasconde un contrasto irriducibile. Infine Il giardino dei ciliegi e con quel giardino si dissolve un mondo, sociale ed esistenziale, che non è riuscito a sopravvivere alle sue 'assenze'; a quel mondo Anton Čechov apparteneva essendone sempre un personaggio, e la reiterata presenza in queste sue drammaturgie di un 'medico', sorta di suo alter ego, ben lo evidenzia. Si conclude qui la “Maratona” ed il messaggio è consegnato, ed è un messaggio che, all'insegna del sempre produttivo 'dubbio', vuole riguardare anche il teatro, attraverso una messa in scena che, nelle intezioni di Leonardo Lidi, è segnata da una 'rinuncia'. La 'rinuncia' all'onnipotenza della regia interpretativa, che tanto ha caratterizzato i diversi approcci alle scritture di Čechov, in favore degli attori affidati alla loro spontaneità che non è totale immersione ma ironico giudizio in cui si compongono e ricompongono le singolari 'recitazioni' che costruiscono la stessa narrazione. Un bello spettacolo, profondo e complesso, quello costruito con intesità, tra Tragedia e Ironia, da Leonardo Lidi, con scenografie sempre azzeccate che agganciano, insieme ad un ambiente musicale ben selezionato, il flusso di senso che circonda le tre drammaturgie, qui nella coerente traduzione di Fausto Malcovati. La prova degli attori tutti (senza far torto ad alcuno segnalo Orietta Notari nei panni en travesti di Sorin ne Il gabbiano ma anche Francesca Mazza, quasi sempre protagonista, Angela Malfitano e Mario Pirrello il tragicomico medico alter ego in Zio Vanja), infine, è come detto di grande qualità in voce, mimica e prossemica, e ad esse quelle caratteristiche presenze in controscena già citate danno ulteriore significatività. Una vera e propria 'Compagnia di Repertorio' capace di intercalare i ruoli e alla quale la rara continuità assicurata dalla triennale 'maratona' ha consentito una maturità e profondità di espressione non sempre consueta. La grande sala dell'Arena del Sole era colma e l'attenzione del pubblico, pur nella lunghezza della prova teatrale, non si è mai attenuata, infine sciogliendosi in lunghi applausi. Maria Dolores Pesce
Infatti la crisi del 'dramma borghese' non è un fatto eminentemente letterario o tout court estetico ma in realtà, per così dire, fotografa la crisi dell'individuo/sociale che diventa, mi si passi il gioco di parole, un individuo/individuale che sta man mano scivolando (ovvero è già scivolato) nella solitudine dell'incomunicabilità, all'interno della quale la comunicazione attiva e proattiva del dialogo si trasforma nel solipsismo, talora doloroso e fin impotente, del monologo, così che la rappresentazione è aliena ad ogni azione.
Scrive, a proposito del nostro, Peter Szondi che della crisi del dramma (e della Società) borghese è stato studioso puntuale: “Čechov rivela la discrepanza tra la forma ricevuta (il dramma dialogico di azione del qui e ora, ndr) e quella che sarebbe richiesta dalla tematica, erigendo, sullo schema tradizionale, un edificio di magica poesia...”.
Contenutisticamente, dunque sempre citando Szondi, nei drammi di Čechov: “rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell'utopia; rinunciare a incontrarsi significa solitudine”.
Un dramma epico il suo (ricordiamo che letterariamente nasce come narratore di novelle) e insieme un dramma lirico che però sembra privare la narrazione scenica dell'accadimento ontologico (traslato nella rudimentale occasione per creare uno 'scenario'), di ogni evento virando inevitabilmente alla descrizione psicologica di queste monadiche solitudini che mai veramente si incontrano.
Un dramma che guarda ma non partecipa, ed in questo ricade presumibilmente non solo una componente culturale tipica della grande letteratura 'psicologica' e introflessa russa (tra Ostrovskij, Tolstoj e Turgenev nonché Dostoevskij), ma forse anche una componente personale e biografica che incistava sul filone di quella letteratura una sua 'norma' singolare, e qui citiamo Henri Troyat: “la norma del <<disimpegno>> letterario e della imparzialità nei confronti dei propri personaggi.”
Non meraviglia per questo che la prima de Il gabbiano sia stata un clamoroso insuccesso, né forse meraviglia che il successo arrise solo con la ripresa che ne fece il “Teatro dell'Arte” di Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko quasi che essi non aspettassero che quel dramma per sperimentare con successo il loro nuovo 'metodo', e quasi che il dramma non aspettasse che quel nuovo metodo di regia e recitazione (più volte allora suggerito dallo stesso Čechov ai primi metteurs en scène) per dare piena ragione di sé stesso.
È così, a proposito dell'inflessione anche biografica del suo atteggiamento letterario, che lo stesso Čechov scrive all'amico Suvorin che lo aveva sollecitato a sposarsi finalmente: “D'accordo, se volete mi sposerò. Ecco però le mie condizioni: tutto dovrà restare come prima, ovvero lei vivrà a Mosca e io in campagna, e andrò io a trovarla di tanto in tanto.”
Lidi costruisce per questo, credo, una serie di regie, lato sensu, in controscena, popolate di tutti i personaggi che mai escono dal palcoscenico, spostandosi casomai dal proscenio al fondo della scena, e che, attendendo il loro momento, possono offrire una sponda di senso, una profondità psicologica ad un evento che non c'è, ad un accadimento che non accade mai se non nell'intimo di quegli stessi personaggi, quasi indipendentemente dalla stessa volontà del loro creatore drammaturgico.
Un viaggio, io credo, guidato da due stelle, una sintattica ed una linguistica, spesso dimenticate negli approcci moderni al teatro cechoviano che del suo tragico lirismo facevano l'unica chiave per aprire le sue porte.
L'altra è la riflessione filosofica su quella vita e sul mondo che la contiene, una riflessione che non si dispiega attraverso il concetto ma bensì attraverso il racconto delle sue manifestazioni interiori ed esteriori, in quegli uomini e in quelle donne che animano la scena come animano la vita, entrambe semplici ma entrambe complesse e contraddittorie.
A questo in fondo dovrebbe servire il teatro: a comprenderlo, creando le condizioni perché alla fine in scena appaia la vita.
In questo caso la scena è spoglia e non ha nulla di naturalistico, quasi ad evitare ogni distrazione al nostro sguardo mentre su di essa si muovono i personaggi che cercano di seguire i ritmi ballabili della loro esistenza anche quando, e se, non li comprendono.
Al centro paradossalmente l'idea di teatro che fa attrito con il teatro stesso, dunque un'idea della vita che fa attrito con la vita stessa conducendoci per mano ad un epilogo in cui la tragedia è come sottratta al suo dolore per apparire lontana e ininfluente.
Già qui, dunque, i personaggi sono come schiacciati da una immobilità che è la loro stessa immobilità, soffocati tra un passato di nostalgie ed un futuro di aspirazioni che, contrapposti, impediscono qualsiasi movimento.
Credo comunque che non sia necessario, in quanto ben noti, raccontare gli accadimenti (che non ci sono) della pièce, o anche le situazioni in cui 'accadono' i diversi personaggi e le loro interazioni, ma anche qui come in ogni novella letteraria, buona o cattiva che sia, il titolo è ciò che anticipa la narrazione, ciò che svela subito quello che sarà il suo nucleo profondo.
E il gabbiano è la speranza uccisa dalla vita, una vita che come una natura leopardiana (o come il drammaturgo) ci guarda senza parlarci e quasi senza 'vederci'.
La scena, o meglio lo scenario, che la regia sceglie qui è dunque una invalicabile palizzata davanti alla quale appaiono i personaggi e dietro la quale quegli stessi personaggi si nascondono a sé stessi ma non agli occhi del mondo.
Il bonario Vanja, icona di un 'popolo russo' forse mai esistito, sopravvive al suo stesso moto di ribellione (il colpo di pistola manca Serebrjacov) e l'immobilità ancora una volta prevale mentre 'sotto il moggio' la speranza flebilmente illumina il vuoto di quelle vite.
Quel mondo si dissolve, quale orchestra sul suo Titanic, sull'allegro pontile di una vacanza sul lago, ultima crociera 'anni 90' tra animatori e forzate allegrie di una famiglia che crede (finge?) di amarsi ma non si conosce.
Non è peraltro celato l'aspetto del ribaltamento sociale annunciato, tra classi che si confondono ma restano contrapposte e che riproducono diverse ma sempre uguali diseguaglianze e involontarie e reciproche vendette, così che si perde del tutto l'afflato, tra la nostalgia e il desiderio, del grido “a Mosca a Mosca” di quelle Tre sorelle incapaci di modificare il loro destino.
Una spontaneità che Čechov medesimo non si stancava di richiamare durante le prime infelici prove de Il gabbiano: “l'essenziale, amici miei, è la completa assenza di teatralità. Essa è proprio inutile. Tutto dev'essere molto semplice, i personaggi sono persone comuni e semplici”.