dramma in cinque atti di Luigi Sturzo
regia riduzione e adattamento di Piero Maccarinelli
Interpreti: Lorenzo Guadalupi, Athos Leonardi, Iacopo Nestori, Luca Pedron, Sebastiano Spada,
Filippo Lai, Diego Giangrasso, Adriano Exacoustos, Paride Cicirello, Francesco Grossi
Scene: Gianluca Amodio. Costumi: Laura Giannisi, Musiche: Antonio Di Pofi. Luci: Javier Delle Monache
Aiuto regia: Danilo Capezzani. Foto: Tommaso Le Pera
Con il patrocinio dell’Istituto Luigi Sturzo Roma
Produzione: Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, Fondazione Teatro della Toscana
Trasmesso su Rai 5, Can.23 il 29 maggio 2021
Credo che al lavoro teatrale La mafia di don Luigi Sturzo, abbracciato in toto da Piero Maccarinelli che ne ha curato riduzione adattamento e regia, i media online e cartacei abbiano dato poco risalto. Ed è un peccato perché il testo scritto nel 1900 quando Sturzo ha 29 anni e andato in scena il 25 febbraio dello stesso anno nel teatrino “Silvio Pellico” di Caltagirone (non più esistente), prende spunto da un delitto mafioso, quello compiuto ai danni di Emanuele Notarbartolo deputato del Regno e ex sindaco di Palermo, che ha come mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, riconosciuto colpevole in primo grado e poi assolto dopo 12 anni nel 1905. Il lavoro di Don Sturzo, cui mi unisce il luogo natio (Caltagirone), dopo 121 anni sembra scritto ieri, anticipando quanto più tardi scriveranno personaggi del calibro di Michele Pantaleone (nato nel 1911) o di Leonardo Sciascia (nato nel 1921). Don Sturzo che certamente aveva vissuto gli anni dei “Fasci Siciliani” ha conosciuto il mondo mafioso del calatino e dei cosiddetti gabellotti che tenevano in pugno contadini e operai, esprimendo il suo lucido pensiero pure su un giornale da lui fondato, la Croce di Costantino in cui scriveva che la mafia “stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica…che oggi serve per domani esser servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior di onestà ad atti disonoranti e violenti”. Non salvando neppure la magistratura, diventata corrotta, asservita alle influenze politiche, al punto che “nessuna speranza brilla nel cuore degli italiani”. Battute queste ultime riferite da un maggiordomo in livrea (Francesco Grossi) nei momenti in cui sono spariti dalla scena (quella tutta nera con quattro porte rosse di Gianluca Amodio), i personaggi della pièce. Interpretati da un gruppo di attori dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, tutti all’altezza, ben calibrati nei propri ruoli con espressioni asciutte senza sbavature. I quali pur non avendo alcuni l’età dei personaggi che vestono, sembrano muoversi come alcuni pezzi degli scacchi, in cui sia i buoni che i cattivi appaiono agghindati tutti allo stesso modo, secondo i costumi del tempo (quelli ad opera di Laura Giannisi), con eleganti redingote nere su camicie bianche chiuse da cravattoni e calzature cinte da appariscenti ghette. Giusto per tingere un po’ di giallo ciò che sto scrivendo, ricorderò ai lettori che Don Sturzo dopo aver fondato il Partito Popolare Italiano (ispirando più tardi la nascita della Democrazia Cristiana), va in esilio in Inghilterra nel 1924 per la cattiva aria mussoliniana che si respira in Italia, consegnando all’amico Giuseppe Spataro fra gli incartamenti anche i due lavori teatrali Il duello e La mafia, andando perduto di quest’ultimo il V atto. Anni dopo, nel 1978, al Festival di Formello si decide di rappresentare La mafia e il drammaturgo Diego Fabbri scrive l’atto mancante facendolo concludere in modo caramelloso, lontano dal finale di Sturzo, in cui l’onesto il cavaliere Ambrosetti (Sebastiano Spada), verrà assassinato, con un sigaro avvelenato, dalla comarca capitanata dall’onorevole di San Baronio (Luca Pedron), come dire Notarbartolo versus Palizzolo. In sostanza Sturzo ricostruisce attraverso i personaggi da lui inventati il perché si arrivi ad agire come agiscono i mafiosi, ovvero togliendosi di torno chi o coloro impediscono la realizzazione dei propri disegni. Ambrosetti non era d’accordo che un mafioso come il commendatore Roberto Pallica (Filippo Lai) reo fra l’altro d’aver sottratto alle casse comunali un’ingente somma, potesse essere eletto sindaco. A niente varranno le minacce anche per i suoi figli che gli giungono. Ecco allora intervenire il losco vice ragioniere comunale Accarano (Paride Cicirello) l’unico che nel gruppo si esprime con accenti siciliani, che ha rapporti con la mafia ed è mafioso lui stesso e concludere i fatti a proprio piacimento. Tra doppi giochi, tradimenti e fedeltà si notano le figure dei cavalieri Serimondi e Tarbi (Diego Giangrasso e Adriano Exacoustios), gli avvocati Racconigi e Fedeli (Lorenzo Guadalupi e Iacopo Nestori), il barone D’Acquasanta (Athos Leonardi). Un bravo a Piero Maccarinelli per aver realizzato uno spettacolo avvincente, serrato, condensato in poco più di 100 minuti, utilizzando il V atto (poi ritrovato fra gli scritti inediti) secondo le volontà di Sturzo.
Gigi Giacobbe