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MINETTI - regia Roberto Andò

Roberto Herlitzka in “Minetti”, regia Roberto Andò Roberto Herlitzka in “Minetti”, regia Roberto Andò

Ritratto di un artista da vecchio
di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
regia Roberto Andò
con Roberto Herlitzka (Minetti, attore drammatico), Roberta Sferzi (Una signora), Verdiana Costanzo (Una ragazza), Nicolò Scarparo (Portiere), Vincenzo Pasquariello (Facchino), Matteo Francomano (Un nano)
Produzione Teatro Biondo Palermo

www.teatrodiroma.net
Roma, Teatro Argentina Dal 24 al 29 gennaio
Milano, Piccolo Teatro Grassi dal 31 gennaio al 5 febbraio 2017

www.Sipario.it, 5 febbraio 2017
www.Sipario.it, 25 gennaio 2017
Bernhard Minetti (Kiel 1905 – Berlino 1998, nato da una famiglia di immigrati italiani) - un grande e oggi poco ricordato attore tedesco del Novecento - rivive sul palcoscenico grazie a Ritratto di un artista da vecchio scritto nel 1976 per lui (che lo rappresenta quale protagonista nel 1977 a Stoccarda) dal drammaturgo austriaco Thomas Bernhard (1931-1989) di cui Minetti ha interpretato numerosi testi.

Il regista Roberto Andò ha affidato tale impegnativo ruolo a Roberto Herlitzka (Torino 1937), validissimo attore italiano di padre cecoslovacco e madre italiana, che offre una straordinaria interpretazione di un Minetti anziano e solo in procinto di incontrare il direttore del teatro di Flensburg che gli avrebbe proposto di interpretare ancora una volta l'amato ruolo shakespeariano di re Lear.

A Ostenda, nella hall di un albergo un po' fatiscente che reca i segni di un lussuoso passato, in un tempestoso San Silvestro appare improvviso l'anziano attore che reca con sé una valigia cui pare legatissimo: possibile che la maschera di Rea Lear - interpretato da Minetti una trentina di anni prima - conservata gelosamente nella valigia e costruita appositamente per lui da James Ensor (1860-1949), pittore belga di Ostenda, sia un bene così prezioso da tenere sotto controllo e da cui non riesce a staccarsi? Ebbene sì, non tanto perché Ensor è definito 'pittore di maschere' inquietanti, quanto per la forte valenza simbolica che la maschera ha per la professione di Minetti, per lo spettacolo, per il teatro in sé e per la vita di ciascuno.

La vita asettica della hall - connotata da anonimi clienti quasi tutti con una maschera sul volto come usciti da un quadro di Ensor - si spegne cancellata dalla forza del racconto-soliloquio che sgorga da Minetti il quale con lucidità adamantina riesamina la sua vita e la sua carriera di attore emarginato e a lungo messo al bando per il coraggio delle sue scelte, vittima consapevole di una sconfitta esistenziale e artistica e allo stesso tempo eroe ancora pronto a rischiare e a immolarsi fino in fondo nel nome del suo credo.
Un Minetti uomo e artista capace di suscitare la grande ammirazione che Thomas Bernhard prova solo per gli attori che si staccano dalla piatta recitazione immedesimando l'uomo nel personaggio con risultati di eccellenza e che estenderebbe oggi a Herlitzka per la sua dolente, pacata, elegante ed equilibrata recitazione di grande intensità emotiva anche quando si esprime in modo pungente e provocatorio contro la società rimbambita e il teatro privato di significati.

La notte avanza e non compare nessuno: angosciante attesa di un qualcosa che si trasforma in illusorio nulla, voragine della vita, e vede l'uomo coincidere con l'attore-artista in uno spettacolo da seguire con attenzione per potere cogliere le numerose e sfaccettate interpretazioni che lo stesso suggerisce grazie alla capacità di regista e attore di rendere attuale ed eterna la solitudine dell'intellettuale, Cassandra che parla a vuoto nel deserto di pecoroni superficiali resi identici da anonime maschere incolori.

Wanda Castelnuovo

ROMA - Esiste un confine reale fra vita e palcoscenico? C'è verità nell'interpretazione di un attore, così come negli atti, nei gesti e nei pensieri della vita di ogni giorno? Se lo chiede il drammaturgo Thomas Bernhard per bocca dell'attore Bernhard Theodor Henry Minetti (Kiel, 26 gennaio 1905 - Berlino, 12 ottobre 1998), da lui molto ammirato e al quale dedica un suo testo di riflessione sul teatro e l'esistenza.
Nella hall di un albergo di Ostenda, in chiaroscuro e caratterizzata da un severo modernismo nordico, l'ultima notte dell'anno l'ormai anziano attore attende d'incontrare il direttore di un teatro cittadino per allestire lo shakespeariano Re Lear, un testo oscuro, psicologico, metaforico, che ancora oggi non è troppo ben conosciuto e capito. Nell'attesa, l'uomo s'inerpica in un lungo, sofferto, ma a suo modo liberatorio monologo nel corso del quale ripercorre la sua esistenza di attore, le disavventure che l'hanno caratterizzata, fino all'esilio in una cittadina di provincia. Infatti, trent'anni prima, Minetti aveva già interpretato Lear, eppure quell'allestimento gli costò l'allontanamento dal teatro, evento che lo spinse ad abbandonare la città e a isolarsi in provincia.
Roberto Herlitzka, attore di respiro e formazione mitteleuropei, dà vita a un superbo Minetti, fra il suo immenso amore per il teatro, il risentimento per una carriera ostacolata dai suoi concittadini, il suo rabbioso e bonariamente senile ripeterne certi particolari. Una recitazione ora sussurrata ora più intensa, sempre con il pensiero fisso all'arte drammatica, al dilemma se sia o meno specchio di verità, alla sua rabbia contro il pubblico, alla visceralità della missione intellettuale che è conscio ci compiere.
Equivoco, solitudine, incomprensione: a questo va incontro chi persegue con coraggio la propria meta, chi non ha paura di annunciare la verità, anche se scomoda. La missione dell'attore, prosegue Minetti, è proprio questa: non interpretare un personaggio, bensì approfondirlo, entrarci dentro con tutto se stesso, come un artista, un baro un bancarottiere. Deve "terrificare" il pubblico, scuoterlo con la sua presenza inquietante. Ed è, di fatto, quello che l'attore sta facendo nella hall dell'albergo: alto, magro, avvolto in un lungo cappotto nero, Minetti/Herlitzka intrattiene il personale dell'albergo e una misteriosa dama fasciata in un abito di raso rosso con lunghi guanti neri, una dama annoiata e insoddisfatta, che lo ascolta a metà fra infastidita e intimorita. Minetti parla di sé a chi non lo conosce, come un attore al pubblico di un teatro; pubblico contro il quale è risentito, pubblico inteso come società cittadina che non ha gradito, a suo tempo, il suo Lear. Lo interpretava, infatti, indossando una maschera realizzata da James Ensor, una maschera "orrenda" come lui stesso la definisce, adatta a un personaggio che combatte contro il vuoto (la parola leer, in tedesco antico, significa infatti "vuoto", e pare abbia ispirato Shakespeare). Ma cos'è questo vuoto? Fra le righe, Minetti si scaglia contro le convenzioni borghesi, contro gli individui che "non osano", che si lasciano portare dal corso degli eventi come un attore segue alla lettera un testo teatrale. In entrambi i casi, non c'è originalità, non c'è "follia", non c'è arte drammatica, non c'è vita. Questo aveva detto, trent'anni prima: con il suo non convenzionale Re Lear, aveva gridato al mondo che il re è nudo, e questo si sa, sentirlo dà sempre fastidio.
Il tempo passa, nella hall semivuota, alla dama in rosso si è sostituita una ragazza in succinto abito nero, e anche lei ascolta con indifferenza, quasi con ironia. Intanto, alle spalle di Minetti in attesa del direttore, passano di quando in quando gli ospiti dell'albergo, indossando una maschera bianca, per andare al veglio di fine anno, ma soprattutto simbolo d'impersonalità.
Il misterioso direttore non arriva, e s'insinua il dubbio che in fondo non si sia trattato di uno stratagemma dello stesso Minetti per presentarsi un'ultima volta alla gente, e al di fuori del palcoscenico "ufficiale" declamare la sua idea del Lear e del teatro: un teatro viscerale, vivo, doloroso, incidentalmente affascinante ma violento, un teatro nietzschiano. Ma scomodo.
Minetti resta solo nella hall ormai vuota, che, per metafora, viene investita da una tempesta di neve che avvolge l'attore (il quale appena prima ingoia alcune pillole): una morte poetica, indossando la maschera realizzata da Ensor, la stoica, coerente, come di chi ha assolta la propria missione umanistica.
La regia di Roberto andò dipana lo spettacolo su di un ritmo lento, come un romanzo di Mann o Svevo, e la recitazione di Herlitzka, che passa con rapidità da un argomento all'altro, ricorda il flusso di coscienza di James Joyce. Attorno a Herlitzka, si muove un inquietante "coro greco" di maschere e persone, di cui le due donne rappresentano il punto più doloroso, simbolo di quel pubblico contro cui Minetti si scaglia.
Il testo di Bernhard è una macchina teatrale concettuale, di profondo ragionamento sulla doppiezza del teatro e la sua continuità con l'esistenza quotidiana, entrambi veri e falsi allo stesso tempo; per tutta la vita si finge qualcosa che nessuno capisce, non sapendo se si tratti di arte drammatica o matematica: una conclusione cui arriva Minetti, ricordando il fratello, un matematico appunto, che intuiamo essere ormai scomparso da anni. Questi lampi biografici ci danno la misura di un uomo e dei suoi affetti, compreso il padre illusionista, dall'esempio del quale ha probabilmente avviata la sua speculazione. Minetti/Lear, infatti, cerca l'impossibile sintesi fra vita intellettuale e rapporti con gli altri, la prima escludendo quasi sempre i secondi. C'è, sottesa, una profonda amarezza nel vecchio attore, che ha pagato con la solitudine la sua coerenza intellettuale. È stato questo il tormento di un'intera generazione di artisti, pensatori, scrittori. Una generazione ormai quasi del tutto scomparsa, e della quale avvertiamo il vuoto intellettuale che ha lasciato.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Venerdì, 24 Febbraio 2017 22:02

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