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LAVORO DI VIVERE (IL) - regia Andrée Ruth Shammah

"Il lavoro di vivere" regia Andrée Ruth Shammah "Il lavoro di vivere" regia Andrée Ruth Shammah

di Hanoch Levin
traduzione dall'ebraico e adattamento Claudia Della Seta e Andrée Ruth Shammah
uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah
ripreso da Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto
con la collaborazione
per l'allestimento scenico di Gianmaurizio Fercioni
per le luci di Gigi Saccomandi
per i costumi di Simona Dondoni
musiche di Michele Tadini

produzione Teatro Franco Parenti

Napoli, Teatro Nuovo dal 25 al 29 gennaio 2017
In PRIMA REGIONALE al Piccolo Teatro Mauro Bolognini 9-12 febbraio 2016

www.Sipario.it, 11 febbraio 2017
www.Sipario.it, 30 gennaio 2017

PISTOIA - Dalla camera da letto non si esce mai democratici. Un luogo di piacere, di vicinanza di corpi e anime, ma anche di rabbia, distanze e frustrazioni. Non se ne esce democratici perché l'ego ha sempre il sopravvento, almeno con certe persone. Yona Popoch è una di queste, che nel cuore di un'ordinaria notte della sua vita scopre come la sua frustrazione abbia raggiunto livelli insopportabili, come la moglie gli appaia non più desiderabile, e in definitiva come sia doloroso quel continuo sentir scorrere la vita lontano da sé. Hanoch Levin (1943-1999) è stato uno dei più interessanti drammaturghi di cultura ebraica, e Andrée Ruth Shammah allestisce uno dei suoi testi più riusciti, interamente ambientato in una camera da letto, fulcro dell'abitazione ma anche della vita dei due protagonisti.
Nei panni tragici e grotteschi di Yona, Carlo Cecchi avvia un monologo che è un disperato tentativo di far luce sul suo passato, sul perché la sua esistenza abbia presa una piega così insoddisfacente, e la colpa sembra essere della moglie, la mite e modesta Leviva, che dorme al suo fianco. Con odiosa misoginia e malcelata frustrazione, l'accusa di aver soffocata la sua personalità, con la sua abitudinari età piccolo-borghese dai ristretti orizzonti, di aver portata la noia nel matrimonio. Brutalmente svegliata dal marito, che l'accusa pretestuosamente di sogni adulterini, la donna viene come investita dall'improvvisa volontà di Yona di lasciarla e rifarsi una vita, adesso, nel grottesco cuore di una notte qualunque. Ferita nel suo orgoglio di donna, Leviva, all'apparenza dimessa, avvia un sottilissimo gioco di astuzie femminili per salvare quel matrimonio in cui lei ha creduto e per il quale, a dispetto dell'opinione di Yona, si è sacrificata. Ha così inizio un dialogo che in parte è uno scontro, e in parte una confessione e un bilancio, dove le anime dei due coniugi si scuotono di dosso la polvere dell'abitudine per rivelarsi reciprocamente, e magari anche a loro stessi. In realtà, Yona è per la moglie un libro aperto: lei ne conosce le paturnie, le idiosincrasie, le vanità e le frustrazioni, e con astuzia lo fa sentire migliore di quello che è in realtà, più colto di lei, e in questo modo ne sfuma la "crisi di mezza età" che la ha colto in questa strana notte. E nel parlargli, ripercorre indirettamente la storia del loro matrimonio.
Carlo Cecchi regala un'interpretazione in tono con il personaggio, un uomo dimesso dalle ambizioni fallite, ed esprime il suo risentimento verso la moglie con una tagliente ironia che sfocia sovente in aperta misoginia. Hanoch Levin è un autore disilluso sulle dinamiche e le potenzialità dell'esistenza contemporanea, vista come una sorta di prigione dove sogni e desideri sono annullati dalla quotidianità. Il tagliente umorismo ne fa un degno esponente della cultura ebraica, così come la fuga disperata da una realtà opprimente ne fanno un autore apparentabile a Philip Roth o Thomas Bernhard; anche i suoi personaggi, infatti, stilano amari bilanci e si scoprono irrealizzati.
Il tratto distintivo di Levin risiede nella sofferta tenerezza con cui i due coniugi ricuciono il loro rapporto, dopo però un intermezzo assai grottesco: lo sconclusionato e patologicamente solo Gunkel, bussa alla loro porta chiedendo un'aspirina per l'emicrania, in realtà pretesto per sfogare il suo bisogno di contatto umano, per scrollarsi di dosso la freddezza delle pareti del suo appartamento; Massimo Loreto interpreta con sofferta ironia questo stralunato ma tragico personaggio, la cui fugace apparizione lo fa sembrare un saltellante folletto dei boschi; gonfio d'amarezza e d'involontario livore verso coloro che non sono soli, lascia comunque a Yona e Leviva un monito a metà fra rassicurante e inquietante: è preferibile una vita di litigi, in coppia, allo scagliare la propria rabbia contro un muro che rimanda sempre un desolato silenzio. Uscito Gunkel, Yona comprende le sue parole e percepisce come mai prima la condanna alla solitudine che grava sugli esseri umani. Eppure Leviva c'è, e rincuorandolo lo trascina in un breve, commovente ballo nella loro camera da letto, in un abbraccio che è fisico e spirituale insieme. Per quanto Yona non riesca ad ammettere di avere bisogno di lei, sfidato ad andarsene dalla moglie... resta.
La crisi sembra scongiurata, e la vita dei due continuare su quei binari di quotidianità su cui si è sempre indirizzata. E invece, ironia della sorte, Yona che la morte atterrisce, viene colpito da infarto e muore in pochi istanti. Il buio cala sulla moglie affranta, su quest'anima che ha persa ogni ragione di vita, legata com'era a un uomo non perfetto, che pure lei ha amato con tutta se stessa, al quale ha regalato se stessa. Fulvia Carotenuto scaglia sul palcoscenico la forza paziente delle donne, la loro abnegazione, il loro pragmatismo con cui affrontano ogni giorno il "lavoro di vivere", consapevoli che i loro uomini non sono perfetti, disposte a sopportare e perdonare i loro difetti. Carotenuto regala un'interpretazione intensa e commovente, al punto da renderla la protagonista effettiva di questo dramma dolceamaro che Levin ha scritto, per citare Woody Allen in controluce, con la consapevolezza del fatto che le storie d'amore ancora esistono perché il mondo ha bisogno di uova (rivedetevi il finale di Io&Annie per comprendere la metafora). Se Yona vive di delusioni, Leviva vive di illusioni, e la capacità di sognare le dà la forza per sopportare il fardello dell'esistenza quotidiana.

Niccolò Lucarelli

Yona e Leviva, la crisi di mezza età: la frustrazione di chi non è più giovane, ma sente che non è ancora tempo di rassegnarsi alla vecchiaia. Yona e Leviva, trent'anni insieme: la solitudine di coppia, che cala implacabile quando ormai si pensa di non avere più nulla da scoprire nell'altro; niente che sorprenda. Il dialogo si fa duello; la comunicazione tossica e frustrante, qualora possibile.
Alla base de Il Lavoro di Viverepièce scritta da Hanoch Levin, compianto drammaturgo israeliano – c'è un dramma comune, fatto di monotonia, ripetizioni alienanti e apnee notturne (la notte sbatte la testa sul cuscino, generando rimbombo e frastuono di angosce). Andrée Ruth Shammah ha diretto lo spettacolo, ripreso da Carlo Cecchi e rappresentato anche al Teatro Nuovo di Napoli. Cecchi ne è anche il cinico e beffardo protagonista.
Cala la notte e con essa il buio nella stanza. L'oscurità agevola il sonno, ma non quello di Yona, tormentato dai soliti malumori: è scontento, amareggiato e, in una parola, stanco. Accanto a lui una donna che neanche riconosce (non più), ma che da oltre trent'anni è là: Leviva dorme placidamente e addirittura sogna.
Yona lo trova assurdo e infatti la sveglia, capovolgendo il materasso e scaraventandola sul pavimento freddo: un gesto brutale per scuotere da quel torpore assurdo sua moglie; la donna che non capisce, non si rende conto, non apre gli occhi sulla loro solitudine e mediocrità.
È notte per tutti, ma non più per Yona e Leviva: due coniugi adulti, anzi maturi. Due persone che, sostiene lui, dovrebbero accettare la loro inutile condizione di prigionieri, di schiavi delle convenzioni sociali e liberarsi. I figli, ormai, sono andati via. Loro due... che speranza c'è ancora per loro due? È ora che si rifacciano una vita, chissà dove e chissà con chi; che si dividano.
Un destino comune a quello di molte altre coppie, superata la cinquantina. Ma Yona non vuole arrendersi e - piuttosto che farne una patologia, lasciandosi uccidere dalla noia - prepara la valigia deciso ad andarsene. Non c'è dialogo tra loro due, non c'è più ascolto né comprensione. Lui inanella battute (toccando nell'irresistibile interpretazione di Cecchi picchi di crudele e tagliente comicità), insulti e offese che hanno l'effetto di rendere lei più agguerrita, decisa a non lasciarlo fuggire.
Leviva è dapprima remissiva e sottomessa: poi passa all'attacco, rigettando la responsabilità esclusiva di un'esistenza anonima. È forse una colpa vivere onestamente? Ma le parole come il sesso non funzionano: tutto sembra una forzatura nauseabonda. L'angoscia aumenta e l'improvvisa irruzione di un vicino di casa morboso (a sua volta afflitto da un accecante senso di solitudine) non fa che peggiorare la situazione.
Il letto, lo spazio condiviso, il ring. Si ritorna a giacere, a combattere, a gridare ciascuno la propria solitudine... in silenzio. Fino a quando la notte non cede il passo al giorno: a una nuova luce su chi va e chi resta, sugli sconfitti e sui vincitori (sempre che ve ne siano).
Il lavoro di Vivere, nella sua spietatezza, è considerato uno dei capolavori di Levin, autore figlio di due sopravvissuti all'Olocausto (più rappresentato nel resto d'Europa che in Italia). Un racconto affilato, che non risparmia nessuno. E così, tra il pubblico, ci si sorprende a ridere di se stessi, del proprio isolamento.

Giovanni Luca Montanino

Ultima modifica il Domenica, 12 Febbraio 2017 11:09

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