di Renato Sarti in collaborazione con Bebo Storti
regia di Renato Sarti
con Renato Sarti, Bebo Storti
e con Delma Pompeo, Voce Radiomariacensura Daniele Luttazzi
Musiche Carlo Boccadoro, Scene e costumi Carlo Sala
produzione Teatro della Cooperativa
Teatro delle Cooperativa dall'8 al 27 novembre 2011
Lievissimamente, cordialmente: simili a Dio simili alla Bestia Sulla storia di questo spettacolo dal suo debutto in prima assoluta nel mese di marzo del 2007 di certo si sa dalla testimonianza di Livia Grossi del Corriere della Sera che quella sera e nelle successive in questo teatro di periferia in sala c'erano un po'tutti allo spettacolo di questi due amici Renato Sarti e Bebo Storti insieme e appassionatamente sul palcoscenico a visitare le pagine della nostra storia di uomini spaesati in questo pazzo universo fantastico ugualmente divisi tra le ragioni dell'anima, i meandri della Chiesa e le parole della politica economica franate su una delle pagine più tragiche della nostra storia durante il corso del Novecento, giù, fino alla sponda degli ultimi singulti della storia della nostra Nazione nelle ore immediatamente precedenti alla fine della Terza Repubblica. E tra le risate di tutti e, tra gli altri, sappiamo per certo che, anche, hanno riso, << Daniele Luttazzi, Cochi Ponzoni,Gioele Dix e la banda dei Comedians con Gabriele Salvatores e Claudio Bisio in testa [...] >> Un opera buffa? No. Opera grottesca, no. Operazione reale d'intrattenimento, forse. Tragica, certamente. La tragedia della storia che si ripete nelle parole latine condite di qualche termine tratto da quel lontano derivato di quella lingua maccheronica che imperversa ancora ferocemente goliardica ai giorni nostri e il dialetto pugliese che diventano, così, il collante ideale per far capire al pubblico questi due uomini di Chiesa così vicini e così lontani e farci sorridere. Il mondo dipinto nelle parole di Pio XII e Padre Pio interpretate da renato sarti e bebo Storti divengono così la tragica rappresentazione di un mondo sempre uguale, ripetitivo fino allo spasmo , prigioniero di un atmosfera divenuta, oggi, per l'uomo comune sempre, più, irrespirabile adatta a quegli organismi i mutanti che tanto si trovano bene baciati dal successo nella spazzatura del loro mondo ideale. Le parole di Delma Pompeo e la Banda Riddle scandiscono, così, verso il finale il tempo di un mondo popolato di farse e menzogne in cui non c'è più spazio per la dimensione dell'anima. Sono due anime in pena, infatti, quelle che si presentano al pubblico. Due anime, le anime di Renato Sarti e Bebo Storti, prestate a Pio XII e a Papa Giovanni XXIII. Due anime divorate dall'ansia di sapere che c'è, solo, un posto libero in paradiso. Ed è così che tra il serio e il faceto inizia sulle soglie dell'eden il nostro viaggio verso il purgatorio e l'inferno attraverso le riflessioni di questi due chierici del tutto speciali per vitalità dell'interpretazione sempre consapevoli dell'inelluttabilità degli eventi e gravati dal peso delle responsabilità che il nostro presente storico ci chiama ad assolvere, di fronte, alla nostra coscienza di uomini deboli, schiacciati dal peso della nostra esistenza, sempre, più, divisa dall'ansia del profitto e dalla cecità di una visione contestualizzata e, sempre, più, lontana dalle dimensioni dell'ignoto. Un ignoto che ci sforziamo di rinnegare, perché, scomodo, ribelle al nostro controllo di creature ansiose e ugualmente divise tra le ragioni del cuore e quelle della politica economica in cui non c'è spazio per la sfera dei più autentici sentimenti che elevano l'uomo e lo riscattano dalla sua dimensione bestiale. Non è in cielo il paradiso che, peraltro, è quello terrestre la sfera celeste appartiene alla dimensione degli angeli che popolano il lontano empireo e l'inferno è qui sempre più vicino in una terra divorata all'interno dal fuoco e dalle tensioni sempre più incontrollate che l'uomo si diverte a sollecitare grazie al principale dei peccati capitali da cui discendono tutti gli altri: l'avidità che arma le mascelle della ferocia e dellla lussuria che altro non è che brama e ricerca del piacere a tutti i costi. Quel piacere di uccidere che assume il sembiante della lonza nella Commedia di Dante. La sofferenza del corpo e quella dell'anima. E' così che in nome dell'amore, quel nobile sentimento che tante pagine ha animato della nostra letteratura, oggi, ridotto, sempre, più, spesso, a mero oggetto di scambio e possesso assumendo la valenza dell'odio che, non a caso, nell'accezione linguistica non è altro che amare in modo sbagliato non preservando, ma, distruggendo, piegando ai nostri fini ciò che riteniamo appetibile per colmare la fame del nostro ego, diventa capace di sanare in modo distorto per pochi attimi la nostra sete di potere, la nostra aridità del cuore. Ed è così che tra il sacro e il profano prende il via un gioco drammatico nel quale il pubblico prende parte, così, come la non più recente tradizione del teatro d'avanguardia americano ha insegnato alle nostre scene. Da Shekcner a Vaccaro. Ed è forse proprio a John Vaccaro e al suo sguardo laico intriso di religiosità condita dal trash di sapore vagamente anglo spanish che è possibile far riferimento al posto dei troppi consunti lacci della commedia dell'arte italiana che in tanti, in troppi, continuano ad usare per i loro esperimenti al limite dell'autocelebrazione di una cultura ormai passata mummificata in qualche vetrina d'intrattenimento. Perché se c'è qualcosa d'innovativo in questo spettacolo questa è la freschezza e la forza con cui si inserisce nel panorama teatrale del teatro di creazione senza cadere per forza nel sensazionalismo del gesto estremo alla Brad Fraser che consente la santificazione della prostituta, così, come la legge André Brassard o nello spettacolo di Bruni De capitani per Milanoltre in quel lontano 1994. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e siamo arrivati agli estremi dell'universo pornografico di tanti creatori o al sadomaso e alla lucida denuncia di Renèe Gingras, Anatomica, (Rotterdam, 2011) così, come, allora, nei lontani anni Ottanta quella di Lepage ne Le poligraphe (montreal, 1988) quello strumento che si vanta di leggere le nostre emozioni l'arma più spietata di controllo di un individuo capace di leggere il battito del nostro cuore il ritmo del nostro respiro. Siamo lontani da ciò con, Io santo e tu beato ma capace di ferirci ugualmente portandoci sull'orlo del pianto e della vergogna per poi risollevarci stemperando tutto in un mesto sorriso. Come, dopo aver letto il quotidiano del mattino o ascoltato le ultime notizie, con un vago senso di inquietudine che ci accompagna all'uscita da teatro sentendoci in colpa per aver assistito ad uno spettacolo che puzza di zolfo ma, non, di blasfemo. Io santo tu beato, quindi, ben si inserisce al di là del contesto regionalistico o dell'Italia nostra nel dibattito politico di un epoca, quella, in cui viviamo ormai stinta dissociata e stemperata nelle comode filosofie del pensiero debole, addormentata in uno sterile estetismo così come denuncia nel corso di un intervista un uomo di teatro come Jean Pierre Ronfard e che ha inaugurato a partire da circa un ventennio fa la stagione anestetica del nostro mondo dello spettacolo al punto che, non esiste più alcuna divisione tra mondo reale, sterile estetismo e fiction, pure, nella nostra vita quotidiana, dove, se non siamo in vetrina siamo chiamati a starci di fronte muti spettatori di un mondo sempre più distante dai nostri sogni. Lo zoccolo duro di un esistenza che sempre più slegata dalle necessità dell'uomo ma sempre più ancorata saldamente all'effimero, al mordi e fuggi di un esistenza canaglia che ha perso ogni contatto con la realtà del quotidiano a cui appartiene che non è fatto solo di carne ma anche di pane, quel pane, che è migliore se consumato con chi pur avendo fame è pronto ad offrirlo agli altri gratuitamente senza scaricarlo dalle tasse ma per riuscire a sorridere e sentirsi vivi. E' così che hanno sempre considerato il mondo dell'arte i grandi artisti coloro che sono sopravvissuti alla polvere dei secoli coloro che hanno saputo conciliare e non sacrificare le esigenze della committenza i bisogni del Principe senza per questo sottomettersi al gusto del pubblico ed è così che compaiono per gli amanti della storia dell'arte visuale le madonne dipinte in chiesa con il velo nero e l'eversione trova spazio, anche, dentro la Chiesa in quel luogo sorto sulle rovine di quei centri di contatto con il mondo / altro già noti ai nostri uomini primitivi da quando iniziarono sotterrare i cadaveri rivolti col viso verso l'alba, verso il sorgere del sole risparmiandoli, così, al morso degli sciacalli e sperando nella loro risurrezione . atti di pietà di un mondo senza pietà capaci di riscattare il corso di una violenta esistenza di un intera vita di tristi individui e, chissà, infine, forse, capace, anche, di farci solcare le soglie di questo universo con un mesto sorriso. D'altronde, come dicono gli antichi filosofi Dio esiste dal momento in cui ne parliamo e la matematica non è un opinione ma un linguaggio convenzionale capace talvolta di svelarci il mistero ma, incapace di spiegarci il dogma, quello, rimane di pertinenza dell'intuito della dianoia e non della ragione. Come ci ammonisce Platone. Uno spettacolo io santo tu beato un passo dalla commedia dell'arte un baratro dall'arte dell'attore sempre uguale sempre diverso di fronte al suo pubblico di mutanti pecorelle. Pecorelle che assistono insieme incredule e imbarazzate all'idea di essere chiamate all'improvviso sotto le luci della ribalta, perché, il pubblico del teatro della Cooperativa è per certe sere e per certi versi un pubblico eterogeneo che si compone non solo di gente in qualche modo legata all'intellighenzia o al mondo dello spettacolo ma, anche, pubblico di quartiere di gente normale, normalmente divisa tra problemi di natura molto pratica che lasciano poco spazio all'immaginazione e poco tempo alla farneticazione sul migliore dei mondi possibili gente abituata ad altro eroismo all'eroismo di quelli che come dice Manzoni la storia la subiscono ma, talvolta, per le strane leggi della matematica causale sono, anche, capaci di qualche gesto inconsulto che di colpo trasforma lo scenario di un intera epoca com'è stato più volte in passato registrato sui nostri annali. Tradendo così all'improvviso un cuore che ha sempre più bisogno di sensazioni forti per continuare a battere e non importa da dove vengano se legittime o meno se crudeli o spietate l'importante è soddisfare il nostro ego o la nostra nevrosi. È così che l'Amore si trasforma in odio e precipitiamo tutti insieme innocenti e colpevoli nel baratro del nostro mondo sempre più malato, paranoico, popolato di serial killer più o meno improvvisati venuti dalla strada o dalla famiglia o dalla politica o dall'economia e che pare oggi fratturato in modo insanabile perché monco della distanza che separa il bene dal male, l'egoismo dall'altruismo, l'audacia dall'incoscienza, l'equilibrio dalla follia, la gioia dal dolore, la risata folle e sguaiata, dal sorriso colmo di gioia di chi baciato dalla fortuna o da quello stato di grazia che non ci è dato a sapere, perché, tipico dei beati quelli che da sempre i più scaltri chiamano ingenui per usare un educato eufemismo. O, quando, le pecorelle si trasformano in lupi e i santi e i beati cedono alla paura e alla maschera del potere scoprono la loro debolezza di fronte alla moltitudine e all'ipocrisia cadendo in contraddizione di fronte alle leggi della politica economica che porta i santi, così come denunciato in questo spettacolo, a cercare di fare meno morti possibile e i beati al misticismo e all'ipocrisia di fronte al loro ruolo nel mondo. È, così, che nello spettacolo la tragedia di un attimo diviene commedia in un incessante altalena di alti e bassi dosati con buona maestria dai due attori. Sono sentimenti, questi, che corrono bene fluidi durante il corso dello spettacolo, soprattutto, quando Io santo e Tu beato cercano di fare i conti con la storia e le responsabilità di chi tra gli ignavi ha preferito la non-azione. Sentimenti che sollecitati dai due attori in scena che chiamano il pubblico in diretta davanti al palcoscenico a rispondere e pregare per loro secondo il già consumato da secoli stilema della commedia dell'arte tanto amato dalla Chiesa al punto da codificarlo in rituale drammatico della sacra rappresentazione nel rosario e sfondando nuovamente la quarta parete della dimensione scenica, in linea con la tradizione già consolidata del teatro d'avanguardia degli anni Settanta, rompono il silenzio. Sartori e bebo Storti ci fanno, così, partecipi di un divertente rosario che non a caso, infatti, è sovente anticamera del funerale. Il tragico funerale della nostra storia, mentre, simultaneamente nelle stesse ore si consuma il funerale della nostra Terza Repubblica. Non c'è spazio per la messa in questo spettacolo. Dio è distante, anzi, assente e il paradiso assume le sembianze di un tram chiamato Desiderio –in perfetta linea drammatica con l'universo dei personaggi di Williams che rischia di partire con un posto vuoto. E non è nella messa che è celebrazione e rafforzamento della vita che sconfigge la morte rivelandoci l'esistenza della dimensione dell'anima leggera che se ne va per restare viva in un infinito viaggio di andata e ritorno per il quale non è necessario pagare alcun biglietto di trasporto che si consuma questo spettacolo ma, si spegne in un soffio che è riso amaro, nonostante, l'attimo di gioia che illumina il volto di una bambina nell'ultimo istante della sua morte. E gli abbracci e i baci in scena tra il pubblico. Ma anche Giuda bacia il Cristo sulle guancie prima di venderlo per trenta denari. Un attimo di luce che non riesce a spazzare via la consapevolezza di aver assistito ad uno spettacolo blasfemo non per insulto a Dio o alla religione ma, alla nostra incapacità di essere forti e risoluti capaci di rinnegare la morte dell'utopia. E capaci di pensare ed esplorare nuove strade verso l'ignoto che ci consentano un esistenza più eroica meno depressa e quindi più felice. Non scordando la lezione di quando: la storia diventa letteratura. La letteratura, politica che, infine, chiude il cerchio della nostra condotta economica. Cinzia Viscomi