di Euripide
Traduzione di Giorgio Ieranò
Regia di Jacopo Gassmann
Regista assistente: Mario Scandale
Scene: Gregorio Zurla
Disegno luci: Gianni Staropoli
Assistente disegno luci: Omar Scala
Video: Luca Brinchi, Daniele Spanò
Costumi: Gianluca Sbicca
Progetto sonoro: G.U.P. Alcaro
Maestro del Coro: Bruno De Franceschi
Movimenti: Marco Angelilli
Direttore di scena: Nanni Ragusa
Interpreti: Anna Della Rosa, Ivan Aloisio, Massimo Nicolini, Alessio Esposito, Stefano Santospago, Rosario Tedesco
Coro di schiave greche: Anna Charlotte Barbera, Luisa Borini, Gloria Carovana, Brigida Cesareo,
Roberta Crivelli, Caterina Filograno, Leda Kreider, Marta Cortellazzo Wiel, Giulia Mazzarino, Daniele Vitale
Esercito dei Tauri: Guido Bison, Gabriele Crisafulli, Domenico Lamparelli, Matteo Magatti, Jacopo Sarotti, Damiano Venuto
Coordinamento allestimenti: Marco Branciamore
Progetto audio: Vincenzo Quadarella
Responsabile sartoria: Marcella Salvo
Responsabile trucco e parrucco: Aldo Caldarella
Scene realizzate da Laboratorio di scenografia Fondazione Inda
Costumi realizzati da Laboratorio di sartoria Fondazione Inda
Produzione: Fondazione Inda di Siracusa
Teatro greco dal 17 giugno al 4 luglio 2022
Succedeva 25 secoli fa che i tre tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide), non si mettessero d’accordo sugli intrecci delle loro eroine. Addirittura c’è Euripide che smentisce sé stesso. Succede quando ne Le Troiane per voce di Ecuba condanna Elena alla pena di morte, per aver tradito tutti compreso suo marito Menelao (questa è pure la versione dell’Odissea di Omero) che a sua volta le promette di ucciderla quando sarebbero ri-tornati a Sparta. Nell’altra tragedia, che poi tragedia non è, ovvero Elena, Euripide sviluppa un’altra versione, raccontando che la tresca tra Paride e Elena non c’è mai stata perché quell’achea biondastra che ha anticipato il mito di Marilyn, era il fantasma della fedifraga creata da Era, mentre la vera Elena, quasi una Santa Maria Goretti d’antan, per ordine di Zeus era stata condotta da Ermete in Egitto alla corte del re Proteo che l’aveva sorvegliata per tutti i dieci anni della guerra di Troia. Accenno solo all’Elettra di Sofocle che tratta lo stesso mito delle Coefore di Eschilo, con Oreste che vendica il padre Agamennone, morto per mano della moglie Clitennestra, uccisa a sua volta da lui (Oreste) assieme al suo amante Egisto, ma che differisce dall’Elettra di Euripide in cui l’eroina appare più rivolta agli affetti familiari e al focolare domestico che all’inevitabile carneficina. Per ciò che riguarda invece il personaggio di Ifigenia i contrasti sono molto più evidenti. Eschilo dà per scontato che Agamennone nella tragedia omonima ha ucciso sua figlia Ifigenia perché potesse finalmente salpare con le sue navi alla volta di Troia ed è per questo che la moglie Clitennestra si vendicherà uccidendolo al suo ritorno assieme alla sua amante-prigioniera Cassandra. Euripide invece nella sua Ifigenia in Aulide racconta che Agamennone, con le navi bloccate nel porto di Aulide per mancanza di vento, convoca moglie e figlia nel campo acheo con la scusa di voler dare in sposa Ifigenia al pelide Achille. Ma è solo un bluff per tagliarle la gola sull’ara della dea Artemide, la quale, fedele al mito, impietositasi per la sua sorte rapisce la fanciulla e al suo posto depone una cerva sgozzata. Il cui corpo finto o imbalsamato del cervide è lì che giace come un reperto museale all’inizio di questa Ifigenia in Tauride (sempre di Euripide), secondo la visione onirica di Jacopo Gassmann, accanto ad altri reperti anch’essi all’interno di contenitori trasparenti, come una serie di spade, una veste bianca, due mezze parti di agnello, la testa d’un toro, una coppa e una vasca al centro piena d’acqua in cui si compiono i riti sacrificali degli stranieri che giungono in quella terra governata da Toante. Lì dove nei due precedenti lavori si ergevano sulla scena del Teatro greco una mega-scala grigia (Edipo re) o un mega-specchio (Agamennone), adesso quello spazio è occupato da una grande scatola rettangolare d’una ventina di metri, che vuole essere il tempio della dea simile quasi ad un padiglione museale con una trincea tutt’intorno per farci intervenire il Coro, e spiccano sul davanti tre grandi finestroni (la scena è di Gregorio Zurla) che ricordano - quando appaiono immagini astratte o figurazioni varie, pure brani antichi del testo e dipinti neoclassici, forse di Tiepolo o David - quei video utilizzati da Davide Livermore nel recente Agamennone. A Gassmann deve essere piaciuto molto questo lavoro di Livermore che si chiudeva con un blues cantato da Maria Grazia Solano, al punto che la sua Ifigenia si conclude al ritmo di rock quando da un‘anta di quel parallelepipedo (i cui interni potevano essere più efficacemente utilizzati, non solo per fare vedere le sfocate immagini delle dieci schiave greche del Coro) appaiono seduti come fossero in teatro i tre protagonisti di Oreste, Pilade e Ifigenia in giubbotti di pelle e poi alé fuori, tutti insieme all’intero cast colti a ballare fra le note della canzone Rock bottom riser di Bill Callahan. A ben vedere l’Ifigenia in Tauride non sembra una tragedia, piuttosto una pièce da camera, a volte pure dai toni intimisti per via dei dialoghi familiari tra Ifigenia e il fratello Oreste. Il sangue degli Atridi ha imbrattato abbondantemente le loro vite. Adesso quei due giovani vogliono solo stare tranquilli e vivere in pace. Ma non è ancora giunto quel momento perché Ifigenia lontana da Argo è stata catapultata in Tauride dove svolge un lavoro che non le piace, quello di presiedere o intervenire lei stessa in prima persona ai riti orrendi dei sacrifici umani, sicché quando i guerrieri Tauri, cinti da corazze luccicanti, con in bella evidenza il mandriano di Alessio Esposito, catturano Oreste e Pilade (entrambi sugli scudi quelli di Ivan Aloisio e Massimo Nicolini) agghindati come due boyscout in grigio (i costumi sono di Gianluca Sbicca), per essere sacrificati alla dea, Ifigenia, (cui dà vita una eccellente e superba Anna Della Rosa in lunghi abiti bianchi virginali all’inizio e maschera bianca in viso raffigurante un cervide, poi in lunghe vesti di nero lutto, come tutto l’intonato Coro), man mano che interroga i prigionieri, scopre che uno dei due è suo fratello Oreste e da qui in avanti architetteranno insieme il modo per fuggire. Oreste da canto suo ha un’altra mission concordata con Apollo per liberarsi definitivamente dalle Erinni che lo incalzano sin dal suo matricidio, quella di rubare l’antico simulacro di Artemide e portarlo ad Atene. Il piano andrà in porto, i giovani fratelli e Pilade fuggiranno su una nave greca e il messaggero (Rosario Tedesco) riferirà il tutto all’ingenuotto re Toante di Stefano Santospago avvolto da un ampio mantello e corona in testa.
Gigi Giacobbe