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GIGANTI DELLA MONTAGNA (I) - regia Roberto Latini

Roberto Latini in "I giganti della montagna", regia Roberto Latini. Foto Simone Cecchetti Roberto Latini in "I giganti della montagna", regia Roberto Latini. Foto Simone Cecchetti

di Luigi Pirandello

adattamento e regia Roberto Latini

musiche e suoni Gianluca Misiti

luci Max Mugnai

con Roberto Latini

video Barbara Weigel

elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini

assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu

direzione tecnica Max Mugnai

movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri

organizzazione Nicole Arbelli

produzione Fortebraccio Teatro 
in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti. Fondazione Orizzonti d'Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione

Piccolo Teatro Studio Melato, dal 3 all'8 maggio 2016

www.Sipario.it, 4 maggio 2016

MILANO - La verità interiore che si scontra con l'ipocrisia, l'indifferenza, la malvagità e l'ignoranza della massa, in un contesto socio-politico alla deriva, nell'Europa ormai dominata dai totalitarismi. E, di riflesso, la problematica dell'affermazione di se stessi, attraverso un'esistenza vissuta ai margini, combattendo ogni giorno per raccontare il proprio disagio, e conducendo una vita raminga, alla ricerca di un impossibile altrove. Quando, l'unica meta raggiungibile, è il campo di battaglia, come dimostra la vicenda di Ilse, pronta al sacrificio come una moderna Ifigenia. Per queste ragioni, I giganti della montagna s'inserisce in un contesto letterario impegnato, nel solco di romanzi quali Viaggio al termine della notte di Céline, o di Fuoco fatuo di La Rochelle, e costituisce uno dei più splendidi esempi di teatro civile europeo e mondiale, investito di una profonda coscienza critica, e capace di scuotere direttamente le corde più profonde dell'anima del pubblico. Non c'è da stupirsi, quindi, che sia uno dei testi pirandelliani meno rappresentati, scomodo sin dal suo apparire, complesso da allestire per la concettualità che richiede, in definitiva un capolavoro senza troppi diritti di cittadinanza.
Riadattando il testo di Pirandello, Roberto Latini ne fa un qualcosa sospeso fra la tragedia greca, l'opera rock, la performance concettuale, e la sperimentazione scenica, attualizzandone la tragica portata.
La scenografia è quanto di più teatrale si possa immaginare, perché il suo minimalismo spinge a usare la fantasia, a ricreare davanti ai propri occhi il sole, le stelle, il cielo, il giorno e la notte, e le esistenze malvissute ma affascinanti che vengono raccontate: luci basse, che più che illuminare oscurano, e uno sfondo su cui scorrono parole e immagini di cieli azzurri e cieli notturni, e sul palco, una breve striscia di spighe di grano, simbolo di un Sud atavico e pastorale, ma anche metafora della forza del libero pensiero, che germoglia come le spighe. Infine, una colonna sonora che spazia dal rock progressivo, alla psichedelia, a motivi struggenti dal sapore arabeggiante, per rendere al meglio la durezza della lotta quotidiana per affermare la propria verità interiore.
Assumendo su di sé la responsabilità d'interpretare tutti i personaggi (operando però un opportuno sfoltimento, senza pregiudicare il tessuto originale), il regista e attore regala al pubblico un'affascinante, struggente, dolorosa allegoria della forza dell'immaginazione, della creazione artistica (e in particolare del teatro), di rendere libero l'individuo, e fiducioso nella propria onestà intellettuale al punto da permettergli di affrontare le prove più atroci, persino a sfidare la morte in nome della libertà. Il nemico più grande è la paura, una parola chiave che ricorre più volte, anche scenicamente, proiettata sullo schermo che costituisce lo sfondo. La trama è semplice, funzionale a sostenere un'allegoria dalla profonda portata civile: uno strano gruppo di attori girovaghi malvissuti, dopo un lungo cammino giunge a una villa ironicamente chiamata La Scalogna, dove incontrano i suoi strani abitanti, individui che qui si sono rifugiati per sfuggire ai Giganti, misteriosi dominatori di una civiltà ormai in preda alla violenza. Ognuno dei personaggi, racconta la propria storia, legate l'una all'altra dal medesimo sfondo di dolore, dall'urgenza di esprimerlo, in una sorta di autoterapia.
Steso attorno al 1933, questo affascinante dramma riflette, ovviamente, il difficilissimo e doloroso clima che aleggiava allora sull'Europa ormai preda dei totalitarismi, e con la guerra civile spagnola che sarebbe scoppiata di lì a poco, così come il secondo conflitto mondiale. Ad atterrire Pirandello, la morsa mortale che si stringe attorno alla libertà individuale, al pensiero critico, alla possibilità della creazione artistica. La pièce è, in primo luogo, l'irrealizzabile tentativo di poter trasferire in una dimensione più accettabile la durezza del momento storico; in questa villa, infatti, grazie ai prodigi del Mago Cotrone, ognuno è libero di raccontare la propria storia, e raccontandola riesce a conoscerla e a comprenderla, comprendendo quindi anche se stesso (non è necessario essere creduti dagli altri, per credere a se stessi). Ma senza la possibilità di far sentire al mondo la propria voce, chiuso per scelta a villa La Scalogna, un luogo sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, fra la vita e la morte, affine all'altrettanto misteriosa isola della Tempesta di Shakespeare.
L'indefinito è la dimensione di questo dramma, e Latini vi attiene con scrupolo, sia scenico sia drammaturgico. Dal primo punto di vista, grazie alla scenografia, che riproduce un "non luogo"; drammaturgicamente, attraverso la scelta d'interpretare tutti i personaggi, sia maschili sia femminili, uniformandoli nella medesima sofferenza e disillusione che si portano dietro, nonostante le magie di Cotrone.
A rompere "l'armonia" della villa, la decisione di Ilse - una delle attrici della compagnia -, di tornare fra i Giganti, portandovi l'arte del teatro, attraverso la quale esprimere il proprio pensiero, la propria idea di verità. Lo scontro è quindi inevitabile, ma Ilse va incontro al proprio destino a testa alta, con la dignità di chi, per citare Malaparte, resta libero anche in una prigione. È lei, con la sua sfida al potere, il personaggio chiave dello spettacolo, la sola che riesca ad avere un'idea compiuta della propria coscienza e del diritto/dovere civile di usarla. Andrà incontro a una fine tragica, già intuita in partenza, ma si sacrifica rivendicando il proprio diritto di esprimersi. E nell'Italia meschina e maledetta del III Millennio, Ilse è la metafora di quella minoranza giovanile che ogni giorno cerca di far sentire la propria voce in una società gerontocratica, composta da miserabili "giganti", imbottiti di tessere di partito, gonfi di privilegi e avidi di accumularne ancora, che di fatto stanno negando a un'intera generazione la possibilità di costruire la propria vita. Questi sono i "giganti" di oggi, oppressori forse persino più odiosi dei dittatori degli anni Trenta, che almeno non si nascondevano dietro l'ipocrisia.
Alla chiusura del sipario, il pubblico applaude con buona maniera, eppure un po' spaesato, compresi numerosi colleghi (seduti appena a fianco di chi scrive). Brutto segno, ci sembra, sintomatico di una mancanza di cultura teatrale anche in chi dovrebbe averla per mestiere, in un'epoca soverchiata dall'imperare della televisione, diabolico oggetto che massifica l'opinione e rende incapaci di apprezzare il pensiero libero, autentico, critico, che la drammaturgia ha da offrirci.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Venerdì, 06 Maggio 2016 06:54

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