di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano,
Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
regia Leonardo Lidi
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
Teatro Stabile dell’Umbria
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Spoleto Festival dei Due Mondi
Teatro Carignano, Torino 26 nov – 1 dic 2024
E se il contadino arricchito, destinato a riscattare se stesso e i propri avi comprandosi l’anima dei padroni, scoprisse di avere un’attitudine al canto e all’intrattenimento, come un Rosario Fiorello d’altri tempi? Se il timido maestro reagisse alle ingiurie di chi ironizza sulla sua condizione di eterno studente ballando un rap? Se, infine, le protagoniste – due sorelle – mettessero a nudo le proprie nevrosi (una irresistibile logorrea l’una, una tendenza allo sperpero e agli amori tossici l’altra), come in una specie di terapia di gruppo? Per definizione, la riscrittura di un grande classico è impresa assai coraggiosa: più “ingombrante” è il capolavoro cui si mette mano – caro e noto al grande pubblico –, più energia e passione si richiede a chi ci mette mano. In una parola, bisogna entrarci con le proprie gambe e portarci contenuti personali: in questo, l’operazione del regista Leonardo Lidi ci sembra perfettamente riuscita; corale e armonica, oltre che ambiziosa. Il suo Giardino dei Ciliegi (testo tra i più famosi di Anton Čechov) è l’angolo al vertice di una trilogia, la terza tappa del Progetto Čechov (le prime due sono IL GABBIANO e ZIO VANJA) in scena al Teatro Carignano di Torino. La voce di scena annuncia – prima ancora che si alzi il sipario – che i protagonisti indosseranno abiti contemporanei: una coordinata utile a non smarrirsi, appena un assaggio dell’originalità firmata da Lidi. Il giardino è nelle parole dei protagonisti, i mobili che raccontano la storia di una famiglia caduta in disgrazia sono nei ricordi sviscerati tra le lacrime e le risa nervose. Il raso delle gonne pompose, il profumo della vodka, il tepore di un’estate fatale sono nell’immaginazione degli spettatori, nutrita a suon di battute e movimenti coreografici dai bravissimi interpreti. Così, la casa dell’inquieta Ljuba si spoglia delle tende, dei tappeti e dei broccati; dei cimeli, ormai privati di senso, delle dovizie che furono. L’ambiente assume i toni di una discoteca abbandonata, di una sala da ballo a festa finita (quando tutti vanno via, calpestando i bicchieri di plastica vuoti). Il senso dell’abbandono, dello svuotamento, della spersonalizzazione; di una modernità che si abbatte sull’individuo impreparato e smarrito, facendo piazza pulita delle certezze passate e insinuando atroci dubbi. Leonardo Lidi riveste, innova, illumina di nuova luce Il Giardino, lasciando inalterata l’immagine della borghesia russa impotente, spaventata e incapace – poco prima della Rivoluzione – di affrontare il presente con le sue nuove istanze. Giovanni Luca Montanino