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FINO A QUANDO LA MIA STELLA BRILLERÀ. STORIA DI LILIANA SEGRE - regia Lorenzo Maragoni (IN STREAMING)

Margherita Mannino in "Fino a quando la mia stella brillerà - Storia di Liliana Segre", regia Lorenzo Maragoni Margherita Mannino in "Fino a quando la mia stella brillerà - Storia di Liliana Segre", regia Lorenzo Maragoni

Tratto dal libro: “Fino a quando la mia stella brillerà” di Liliana Segre e Daniela Palumbo
Con: Margherita Mannino
Drammaturgia: Daniela Palumbo
Regia: Lorenzo Maragoni
Costumi: Silvana Galota
Musiche originali: Filippo Cosentino
Una produzione: M.i.l.k. srl
Con il sostegno di: Zaino Foodservice Srl e mpg.cultura
Con il patrocinio di: Associazione Figli della Shoah e Comunità Ebraica di Venezia
Teatro Stabile del Veneto dal 26 al 29 gennaio 2021

www.Sipario.it, 5 febbraio 2021

Cosa c'è nei ricordi di Liliana Segre?
Questa domanda così intima introduce lo spettacolo Fino a quando la mia stella brillerà trasmesso in streaming dal Teatro Stabile del Veneto in occasione del Giorno della Memoria. L'interrogativo scoperchia delicatamente la “scatola dei ricordi” dell'infanzia e dell'adolescenza di Liliana Segre, attivista e politica italiana, conosciuta come esempio di forza e resilienza per essere sopravvissuta all'orrore dell'Olocausto ad appena tredici anni. Ed è ancor di più per contrasto con un'infanzia tutto sommato serena, sebbene privata della figura della madre, che l'esperienza è a tal punto infernale da apparire irreale: e invece tutto è accaduto davvero, in un tempo tremendamente vicino.

La vita felice: i ricordi d'infanzia

Margherita Mannino, l'unica attrice dello spettacolo che interpreta con grande immedesimazione la Liliana bambina e poi ragazza mentre rivive e racconta la sua storia, si muove su un palco scarno, vestita sobriamente e circondata solo da alcuni sgabelli bianchi su cui si siede talvolta, e da un piccolo pezzetto di legno che tiene in mano o appoggia per comporre, insieme alle sedute, diversi elementi scenografici. Una casa – per esempio – quella di corso Magenta 55 a Milano, dove, nei primi anni Trenta, Liliana trascorre gli anni più spensierati della sua giovane vita; un piccolo mondo protetto, benestante, dove si muovono i nonni paterni: Olga e i suoi pomeriggi di té con le amiche, e Pippo, che nelle belle giornate la porta in carrozza. Ma soprattutto l'amatissimo padre Alberto, che brilla negli occhi di Liliana come un uomo forte, sensibile, bello; sofferente per la mancanza della moglie, ma al contempo capace di ricoprire entrambi i ruoli di genitore, tanto da "farle saltare il cuore in cielo" quando torna a casa dal lavoro. Nutrita da questo amore, insieme a quello dei nonni materni, Bianca e Alfredo, Liliana cresce come una bambina vivace, impertinente e determinata, quella che sembra essere la sua più grande dote. Altro elemento scenografico è infatti un triciclo da cui cade e inarrestabile si rialza, cade e si rialza, senza sapere che è solo un'infinitesima parte e un'azzardata metafora della tenacia che sarà capace tirare fuori anni dopo.
«Beata te che sei ebrea...» – le dicono le compagne di classe della scuola di via Ruffini, quando essere ebrei, in Italia, significava soltanto essere liberi di saltare l'ora di religione. E queste parole sembrano quasi farsi beffa di ciò che significherà esserlo dopo: appena pochi anni e la scuola di via Ruffini Liliana la vedrà solo di passaggio per recarsi a prendere lezioni private perché non può più andare a scuola. È il 1938 e in Italia vengono introdotte le leggi razziali, determinando a stacchi netti una rottura con la vita che era prima, come se pesanti porte si chiudessero in tonfi via via dietro di lei: anche il palco, dapprima illuminato completamente, si fa sempre più buio, e le voci “fuori campo” e i rumori allegri delle corse all'ippodromo, dei bambini, del mare e dei gabbiani al largo sul pattino col papá, gli arpeggi di chitarra, si mutano in suoni gravi, come quelli di un temporale che i Segre aspettano esploda da un momento all'altro, e delle bombe allo scoppiare della guerra.

Il ricordo di Auschwitz: la vita che precipita e, tuttavia, continua a brillare

Da qui in poi è un precipitare continuo, una fuga dal nemico sino alla cattura, al carcere e alla deportazione ad Auschwitz, un punto cosí basso e buio da non lasciare intravedere la speranza di un ritorno. Le scarpe, che rimarranno uno degli oggetti simbolo di questo massacro e di ciò che distingue un essere umano dall'altro, non servono più, e rimangono vuote sul palco. Proprio nella parte centrale del dramma, l'interpretazione si fa sempre più alta e intensa, in opposizione a questa inesorabile caduta: la voce della Mannino si fa lieve ed esitante come quella di una bambina impaurita, ma nello stesso tempo l'atteggiamento è già troppo adulto per la sua età, mentre il volto le si riempie di lacrime ripercorrendo i passaggi più traumatici.
Liliana non piange mai, ma separata dal padre e circondata dall'incombere della morte, si abbandona per giorni a un pianto inarrestabile; fino a quando qualcosa dentro di lei si sveglia, una parte che non aveva mai incontrato, e una forza sconosciuta le chiede perentoriamente di resistere e lottare per la vita. La stella, che tutte le notti Liliana guarda nel cielo, è il suo appiglio nel buio, e il lontanissimo riflesso della luce che prende a brillare nel suo cuore, la promessa a se stessa di non crollare. Cosí, mentre tutto si disumanizza (i prigionieri, per i nazisti, non sono altro che “stück”, pezzi), e persino Liliana stessa sembra farsi insensibile per salvarsi, la meraviglia dell'essere umano e la forza della vita si impongono, tracciando l'unica via percorribile. Un passo dopo l'altro, quest'unico dio sorregge Liliana lungo la Marcia della morte, fino in Germania, dove arriva, dopo un anno e mezzo di prigionia, viva e finalmente libera; sebbene non dai ricordi.

Il ritorno a Milano: la luce che sembra spegnersi e che poi si riaccende

I soldati americani la accolgono, insieme agli altri sopravvissuti, con una gentilezza che le pare incredibile, e Liliana, per la prima volta dopo tempo, si sente chiamare per nome: adesso non è più uno "stück", un numero tatuato sul braccio; ed «è un tintinnio magnifico – racconta – sentirsi chiamare in un'altra lingua: Lailiana…» – ripete con voce argentina. Quando scrive le lettere a nome dei suoi ex compagni sopravvissuti, mimando il gesto con un dito nell'aria e, finalmente, sorridendo, una felicità evanescente torna a pervadere il palco. Liliana, però, è l'unica a non voler raccontare e ricordare, piuttosto dimenticare, e quel sorriso si spegnerà presto quando, tornata a Milano, il primo agosto del 1945, dovrà fare i conti con ciò che è rimasto, con ciò che ha perduto, ma soprattutto con un'altra sé: aggressiva, insofferente, senza più un sorso di quella voglia di vivere che l'aveva salvata, e del cui trascorso nessuno chiede e si azzarda a sapere.
Tutto sembra tornare a precipitare dentro di lei, ma un'estate, un uomo, che riconosce quel male e finalmente le parla «come a voler consolare tutto il dolore del mondo», la salva, per la seconda volta e forse per tante altre, con «un amore che cura, consola e protegge dai ricordi tristi, dá speranza»: è Alfredo e ha lo stesso nome del nonno, colui che diventerà il compagno di una vita.

Più che una stella che brilla, se dovessi pensare a un'immagine che racchiuda l'impressione lasciata, insieme alla commozione, alla fine di questo spettacolo, essa richiamerebbe quella usata da Liliana quando racconta, con le ultime parole, la rinascita: «qualcuno apre i rubinetti della vita, e la gioia scorre in corpo, la vita è ancora bella».
E penso poi a quella stessa acqua, che in fondo, anche dentro tutto quel male, non ha mai smesso in Liliana, limpida, di gorgogliare.

Valeria Minciullo

Ultima modifica il Martedì, 09 Febbraio 2021 12:30

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