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FLESSIBILE HOP HOP! - da un'idea di Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza

"Flessibile Hop Hop!", da un'idea di Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza "Flessibile Hop Hop!", da un'idea di Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza

Con Allievi terzo anno – Scuola Teatro della Brigata
Testi di Emmanuel Darley
Da un'idea di Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza
Scenografia e luci Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza
Produzione Teatro della Brigata
Livorno, Teatro della Brigata, 4 ottobre 2019

www.Sipario.it, 8 ottobre 2019

Livorno - Emmanuel Darley ci regala un testo crudo e realistico, una descrizione agghiacciante ma meticolosamente ben studiata della società in cui tutti noi ci troviamo immancabilmente a lavorare. Proprio il lavoro è il fulcro della narrazione teatrale e attorno alle sue più brutali e moderne accezioni si snodano le conversazioni dei vari personaggi, di notevole difficoltà tecnica, che gli allievi del terzo anno del Teatro della Brigata hanno saputo portare in scena con una notevole perizia e una forza non scontate.
La scena semplice si apre con due quadrati bianchi di stoffa nera che segnalano quelle che saranno le postazioni di lavoro di due operai che entro poco entreranno in scena, delineando due tipologie di lavoratori: il vecchio e il nuovo.
Se il vecchio legato a un mondo lavorativo familiare si prostra alle logiche del lavoro senza sé e senza ma, piegandosi su sé stesso pur di soddisfare in qualsiasi modo la propria azienda, che ormai ha perso quella dimensione originaria essendo stata acquistata da una multinazionale, la cui essenza viene fortemente e aspramente criticata dall'autore come creatura famelica che non da' nulla dove viene accolta, ma anzi una volta terminato l'assorbimento di ogni energia e ricchezza del luogo, abbandona tutto e soprattutto tutti.
Dall'altra invece si ha un giovane stagista, affacciatosi per la prima volta al mondo del lavoro, che timidamente prova ad alzare la testa quando percepisce che i propri diritti vengono calpestati, ma che privo anch'egli, seppure in maniera totalmente diversa dal primo, della consapevolezza dei propri diritti, si piega alla volontà dei propri responsabili e capi.
Da una parte quindi abbiamo lavoratori e lavoratrici che vengono sfruttati e dall'altro inarrestabili sfruttatori: i responsabili, i capi, l'azienda stessa, il cui unico obiettivo è il denaro, il guadagno ad ogni costo, il più velocemente possibile, senza curarsi della salute delle persone, senza progetti di ampio respiro, ma con la pretesa del guadagno immediato e più sostanzioso.
Anche quei soggetti che dovrebbero avere, o che potrebbero avere, un ruolo positivo, come gli operatori dei centri degli impieghi, vengono visti e descritti come semplici intermediari tra domanda e offerta di lavoro, anzi come coloro che consapevoli di avere un esercito di disoccupati tra cui poter scegliere invece che porsi a difesa dei più fragili e di coloro che cercano un impiego si schierano con il miglior offerte, che altri non può essere che l'azienda acquisita.
Il testo del 2005 è oggi più attuale e caustico che mai: lavoratrici e lavoratori lasciati a sé stessi, spesso inconsapevoli dei propri diritti, oppressi e ricattati poiché necessitano di lavoro e sono disposti a tutto pur di poter guadagnare il minimo, anche se ciò vuol dire lavorare sedici ore al giorno, lavoratori che mancanti di una propria identità proletaria e di corpo operaio producono ancora più danni poiché in loro le aziende e i datori di lavoro senza scrupoli trovano terreno fertile per operazioni economiche scellerate.
Le persone che divengono semplici macchine per la produttività, senza alcun tipo di dignità, a cui si cerca di togliere ogni veste di umanità, devono essere macchine, funzionare come macchine, costare meno delle macchine, anzi se quest'ultime vengono trattate con una certa attenzione perché il costo e l'investimento è notevole, ciò non si può dire dei dipendenti perché sono facilmente sostituibili, anzi questi devono essere scambiati il prima possibile con coloro il cui costo è il più basso sul mercato.
La stessa domanda che pone un responsabile a una candidata:" Vuole lavorare?" nasconde l'agghiacciante ricatto amorale che i capi aziendali pongono in essere sistematicamente; chi infatti dei disoccupati direbbe di no? Un ricatto che però nasconde sfruttamento e denigrazione del lavoratore stesso, stretto nella morsa tra la ricerca di un impiego e la necessità di sopravvivere. La risposta non può che essere "devo" per molti, ma non può che essere un monito per tutti noi.
Infine, la multinazionale abbandona il luogo dove si è cibata delle risorse umane e materiale, ma qui ritorna sul luogo del delitto quando capisce che vi è la possibilità di nuovo guadagno: l'apertura di un museo, per omaggiare quel lavoro e quegli operai che lei stessa ha distrutto e lasciato a casa, ma anche qui, anche in questo progetto dove sembra che tutto cambi, dove si intravede un flebile lieto fine, anche qui, fino all'ultimo, veniamo lasciati con l'amaro in bocca perché la multinazionale non vive per i buoni sentimenti e la salvezza delle persone, si nutre solo di denaro, e cambiare tutto per non cambiare niente non è mai stato così facile in una società che non ha gli anticorpi per fronteggiare chi calpesta i diritti delle persone.
Un testo che non da' nessuna speranza, attraverso cui non si riesce a scorgere nessun avvenire, che non strappa nessuna risata, ma solo amare riflessioni tanto più che tutto ciò che viene raccontato e recitato nel testo ricalcano ciò che ogni giorno accade in Italia.
Soltanto chi non si è mai avvicinato a un posto di lavoro può credere che si tratti di un'esagerazione, ma la realtà non è mai stata così perfettamente raccolta, trascritta e recitata.

Matteo Taccola

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Ottobre 2019 19:39

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