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FEDRA - regia Andrea De Rosa

"Fedra", regia Andrea De Rosa. Foto Mario Spada "Fedra", regia Andrea De Rosa. Foto Mario Spada

dalla Phaedra di Seneca (con estratti dall'Ippolito di Euripide e dalle Lettere di Seneca)
adattamento e regia: Andrea De Rosa
con Laura Marinoni (Fedra), Luca Lazzareschi (Teseo), Anna Coppola (Venere), Fabrizio Falco (Ippolito), Tamara Balducci (un'amica)
scene e costumi: Simone Mannino
luci: Pasquale Mari
suono: Gup Alcaro
produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale
Milano, Piccolo Teatro Grassi dal 14 al 26 febbraio 2017

www.Sipario.it, 23 febbraio 2017

Una tragedia latina che, pur rifacendosi a fonti greche, presenta diversità rilevanti, figlie non solo del più pragmatico animo latino, ma anche di finalità politico-morali volte a stigmatizzare la piega autoritaria e antirepubblicana che ha connotato il primo secolo dell'impero romano anche se Seneca si rivela tra le righe per una concezione di un sovrano assoluto al servizio dell'impero: questa in estrema sintesi la Fedra scritta da Lucio Anneo Seneca (Cordova 4 a.C. – Roma 65 d.C.), filosofo, politico, drammaturgo nonché esponente dello Stoicismo e personalità di grande carisma e spiritualità del mondo antico tanto che nel Medioevo sboccia la leggenda che lo vede cristiano e in rapporto epistolare con san Paolo e che l'Umanesimo lo considera insieme a Cicerone il moralista per eccellenza.

Fedra - scritta presumibilmente insieme alle altre tragedie durante l'allontanamento dalla corte di Nerone e destinata alla lettura e non alla rappresentazione - è intrisa della dottrina stoica professata dall'autore e mette in antitesi con tinte cupe e strazianti forze contrastanti quali furor e raziocinio che s'incarnano con lucida drammaticità in Fedra, figura focale del dramma.
Donna cosciente, consapevole e capace di operare un'autoanalisi razionale evidenzia quale giustificazione della folle passione provata verso il figliastro Ippolito l'essere trascurata da un marito spesso lontano e infedele: asserzione che si sgretola di fronte all'altra e più profonda che adduce quale alibi l'intemperanza (ereditata quasi a livello genetico) della madre Pasifae (moglie di Minosse, re di Creta) che si era accoppiata con un toro per cui provava (per una vendetta divina) un'attrazione morbosa e da cui era nato il Minotauro.

Alibi che anche per Fedra ha come radice la vendetta di una divinità che nel testo di Seneca non è presente liberando l'uomo dagli dei e dal fato. De Rosa, invece, inizia la pièce con Venere/Afrodite (una convincente Anna Coppola irata e bramosa di vendetta contro Ippolito che disdegna il dono dell'Amore), dea vestita di rosso e dalla femminilità ambigua e senescente che si rivela da subito come colei che tira le fila della storia, burattinaia di uomini e di situazioni e insieme commentatrice e rumorista.

Se Laura Marinoni con toni forti - più indotti dalla regia che da Seneca - rende la visceralità della passione incontenibile di Fedra, Fabrizio Falco si rivela un Ippolito pacatamente superbo nell'essersi votato a Diana/Artemide e a una vita di cacciatore a contatto con una natura non corrotta e inorridito della confessione della matrigna: due mondi opposti, ma contigui nella radicalizzazione delle scelte.

La vendetta di Fedra è demoniaca in linea con il dualismo che la caratterizza e sottilmente crudele il ritrattare l'accusa che accentua le conseguenze di questi ferali misfatti figli di una ragione soggiogata dall'istinto che connota anche Teseo, impersonato da un Luca Lazzareschi ben calato in questo eroe dall'ego spropositato e dalla sicurezza-boomerang che esalta la sua solitudine.

L'opera di Seneca ha valenze morali e mette in guardia dalle intemperanze della passione: sono i personaggi che presa coscienza attraverso un'autoanalisi raziocinante delle situazioni potrebbero modificarle, ma i nostri 'eroi' sono prigionieri di una 'gabbia di vetro' e vogliono bere fino in fondo il calice dell'autodistruzione anche perché gli dei non ci sono più.

In fondo gli dei avevano vizi e virtù come quelli degli uomini ed entrambi soggetti a un 'fato' cieco e capriccioso finivano per non distinguersi salvo che per il dono dell'immortalità e allora non è forse superiore il raziocinio umano? Uno spettacolo che induce a riflettere aprendo infinite porte del proprio io.

Wanda Castelnuovo

Ultima modifica il Venerdì, 24 Febbraio 2017 04:17

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